«Alberto entrò, spinto dalla curiosità
e dal caldo afoso dell’estate argentina. L’Asociación
“Amigos Centro Cultural Recolecta” ospitava una mostra d’arte
contemporanea. L’atrio era avvolto nella penombra. dallo scalone di marmo
piovevano freschi pallori di luce che rimbalzavano sulle bianche pareti e i
soffiti alti. Un silenzio di refrigerio lo fece sentire rinato. Lì fuori, il
sole tempestava con i suoi raggi accesi, rendendo l’aria densa, ottenebrata, in
cui ogni cosa appariva ferma, sospesa.
Si immerse con voluttà nella frescura
della prima sala, dove oggetti di forme e colori fantasiosi si ergevano come
totem di una religione impossibile.
A lui non piaceva molto quel genere d’arte;
per lo più non gli faceva provare alcuna emozione. Non sapeva se per questo non
gli piaceva o perché non la capiva. Continuava a chiedersi se l’artista, ogni
artista, con la sua opera, vuole comunicare qualcosa, un’idea, un sentimento o
se esprime solo se stesso per se stesso; se vuole allestire un palcoscenico per
mettersi in mostra o creare un teatro in cui la mimési dell’essere uomo faccia
echeggiare un sentimento nella spettatore. Ma, forse, egli veramente non la
capiva quell’arte.»
Nilo Zanardi, L’albergo degli emigranti. Cagliari: Zonza Editori, 2008.
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