Mostrando entradas con la etiqueta De Amicis Edmondo. Mostrar todas las entradas
Mostrando entradas con la etiqueta De Amicis Edmondo. Mostrar todas las entradas

martes, 29 de octubre de 2024

«La patria en una nave y en un diario: Cuore (1886) y Sull’Oceano (1889) de Edmondo De Amicis”.




Paneles «Los libros italianos que han dejado su impronta en la cultura» organizados por la Asociación de Docentes e Investigadores de Lengua y Cultura Italianas (ADILLI) y la Universidad Nacional de Tucumán, Facultad de Filosofía y Letras, en adhesión a la XXXIV Settimana della lingua italiana nel mondo «L’italiano e il libro: il mondo fra le righe». 28 de octubre de 2024.

Webinar completo disponible en el canal YouTube de UNT Virtual

Esta exposición propone resaltar el carácter fundacional de la novela Cuore (1886) y del libro de viaje-novela testimonial Sull’Oceano (1889) de Edmondo De Amicis (1846-1908), en el espacio geocultural italiano y oltremare porque contribuyeron, por una parte, en la formación de representaciones identitarias que marcaron el imaginario colectivo y, por otra, en la configuración discursiva de modelos textuales en el canon literario, hasta su desplazamiento.

 

martes, 11 de abril de 2017

"Ai fanciulli del Rio della Plata", de Edmondo De Amicis (1892)



«Buone feste, buon anno. Il mio augurio v’arriverà molto tardi: accoglietelo non di meno benevolmente, perchè non m’è uscito mai dal cuore un augurio più sincero e più caldo di questo. A chi proprio lo manda? penserà qualcuno, forse. Ed io potrei nominare moltissimi di voi, perchè ricordo di moltissimi, non soltanto i nomi, ma i visi, le voci, e i posti che avevate nei banchi delle scuole, e appunto mentre scrivo, ho davanti un mucchio di ritratti vostri, e dei versi che mi recitaste con la voce malferma, e col viso un po’ chinato sulla spalla, per vergogna, dei componimenti, dei mazzetti di fiori secchi che ricevetti freschi e odorosi dalle vostre manine chiazzate d’inchiostro, e dei quaderni che mi cacciai in tasca di nascosto, mentre gli ispettori non guardavano. Potrei dire: — Mando il saluto a questo e a quell’altro dei miei piccoli amici e conoscenti, dei quali ho le immagini vive dinanzi agli occhi. — No; mando invece un saluto a tutti, anche a quelli che non vidi; un buon augurio a tutto quel piccolo popolo rosato, ricciuto, amoroso, trillante che si agita e cresce in mezzo al popolo grande del Rio della Plata, come una miriade di fiori vermigli e celesti dentro a un’alta messe matura; a tutti voi, bellezza, grazia, poesia della patria argentina; che foste una delle gioie più vive e che siete ora uno dei ricordi più gentili del mio viaggio.
  
*
* *

Sì, a tutti. Ogni volta che mi suona nella mente o all’orecchio questa parola: — Natale, — il mio pensiero vola tra voi, e mi par di vedervi raccolti tutti in una innumerevole folla di mille colori, come un immenso giardino delle terre del tropico, che si rimescoli al soffio delle grandi aure dell’Atlantico, spandendo per il cielo una fragranza misteriosa di giovinezza. In mezzo a migliaia di visetti candidi e di chiome bionde, ci sono migliaia di faccine brune e di capigliature corvine, e tra queste, degli aspetti strani per me, ma appunto per la stranezza più cari: dei visi neri, dei capelli crespi, delle carnagioni mulatte, dei colori cinerei e verdognoli non visti mai sulle sembianze umane; e lontano, all’estremità della folla, dei piccoli visi anche più strani, di color di terra e di rame, con gli occhi obliqui, con gli zigomi sporgenti, d’una espressione intenta e triste, non priva di dolcezza. E la folla ondeggia e gira, e agita in alto i cappellini ornati di penne di pappagallo, e bandiere bianche e azzurre, e giocattoli di Parigi, ed archi di legno di Chañar, e piccole bolas, levando un vocìo assordante, nel quale colgo qua e là sonore frasi spagnuole, e parole napoletane, liguri, piemontesi e lombarde, e vocaboli bizzarri di lingue ignote, simili a trilli d’uccello, e note sparse di canzoni monotone e austere della Pampa. Ed io apro con le palme quell’onda umana ribollente e raggiungo la figliuoletta d’un operaio della scuola italiana della Colonia, bacio in fronte il piccino vestito di raso d’un deputato del Congresso, e poi un pastorello dei monti di Catamarca, e una piccola castigliana di Buenos Aires, un gaucho di sette anni, e un monello genovese nato sopra un piroscafo della compagnia Lavarello, e poi un’angioletta argentina che fu concepita a Genova e messa al mondo a Mercedes. Buone feste, buon anno, buona fortuna a tutti, figliuoli di dieci popoli, rose e perle del nuovo mondo, picaflores parlanti della favolosa valle del Plata, belle e sante speranze, promesse benedette d’una società nova! Buone feste, siate felici, vogliatevi bene; date la mano ai piccoli meticci, voi creoli; baciate in fronte i piccoli indiani, voi altri europei, e chiamatevi fratelli, o cari fratelli lontani dei nostri figliuoli, dolci, amati, incancellabili ricordi dell’anima mia.


*
* *

Quanti piccoli ritratti di bimbi ho portati in patria, disegnati e coloriti nella memoria; quanti bei paesaggi della pianura e della montagna, nei quali campeggia la figurina d’uno di voi! Ricordo tra i primi, o meglio, rivedo, due figlioletti di contadini, piantati in groppa a un solo cavallo, che li porta di galoppo alla scuola della Colonia agricola di Speranza; l’uno appiccicato, incollato alla schiena dell’altro, che paiono un corpo con due capi o con quattro gambe; tutt’e due con la cartella dei libri a tracolla e le mani nelle tasche dei calzoncini, strizzati dal freddo della mattina, pavonazzi in viso e ancora mezzo insonniti, fuorchè nel momento che rispondono al nostro saluto: — Cerea! — dopo di che spariscono nella nebbia fina che copre la pianura sterminata. Spariscono nella nebbia, ed ecco due signore vestite di bianco in un palchetto del teatro Colombo, e tra l’una e l’altra, come posato sul velluto del parapetto, un mucchio enorme di riccioli nerissimi e lucidi, che non si vede di chi siano, ma che alzandosi tutt’a un a tratto con una scossa che li fa dondolar tutti quanti come un mazzo di bubboli, lascian vedere un viso maraviglioso di porteñita, due stelle d’occhi, un sorriso, una grazia di bocca e di fossette, una delle faccine più adorabilmente brune che abbian mai fatto palpitare d’orgoglio il cuore d’una madre argentina. Svanisce il palco col morir d’una nota del Tamagno, ed ecco una capanna di fango e di stoppia, un rancho che vidi vicino a Tucuman, sopra una via fiancheggiata da campi di canne da zucchero: dentro c’era un morto, fra due candele accese; tutta una famiglia nerognola stava inginocchiata, parte dentro, parte fuori, in scala, dai grandi vicino al letto, ai ragazzi in mezzo alla strada; e l’ultimo di questi era un putto di tre anni, color di mota, con una gran capigliatura arruffata, ginocchioni nella polvere, con le manine giunte, grasso, mezzo nudo, bello, sporco, adorabile: voltò verso di noi il suo musino di selvaggio, e senza disgiungere gli zampini, sorrise con la bocca piena: — povero innocente, pregando in faccia alla morte, mangiava! E un altro quadretto. Un bel ragazzo correntino di nove anni, elegante e svelto, d’un viso affettuoso e ardito, inquadrato in una porta del salone sur un piroscafo che va a Santa Fé, così che par disegnato sul fondo chiaro delle acque del Parana, e la sua testa spicca sopra il verde d’un’isola coperta di aranci. Il padre me l’ha presentato come uno dei più famosi cavallerizzi della sua generazione, capace di far quindici leghe al galoppo in ventiquattr’ore, e gli ha fatto recitar quattro strofette italiane, che sono quattro dei miei più amari rimorsi. Abbi anche tu il mio saluto, o simpatico ragazzo, a cui non seppi dir nulla, e t’avrei voluto dir tante cose per lasciarti di me una memoria buona e amabile come l’anima che ti traluceva dagli occhi. E ancora un’altra scena. Una sala vasta e splendida del Casino del Progresso, una mensa scintillante di cristallo e d’argento, coronata d’amici; e ritta accanto a un di questi, una figura per me curiosissima, una sorpresa etnografica, il primo esemplare di razza indiana ch’io vedessi, un servitorino di otto anni, d’un colore indefinibile, che faceva come una piccola macchia di barbarie in mezzo alla eleganza parigina della sala; ma di barbarie ingentilita, e non triste, perchè i suoi grandi occhi neri riflettevano la bontà paterna del padrone. Povero fior guaranì, trapianto in via Rivadavia! Ed era tanto diverso dai nostri nell’aspetto; ma pure quella sua maschera strana, dalle forme grosse e rudi, aveva gli stessi sorrisi graziosamente timidi, gli stessi vezzi ingenui, tutti gli atteggiamenti gentili e cari dei nostri fanciulli. Buone feste, buon anno anche a te, mio piccolo indio, e che tu possa essere un giorno un lavoratore onesto e contento, padre di figliuoli civili e liberi, e ch’io lo risappia, fra molti anni, quando i miei capelli saranno bianchi come i tuoi denti. E ancora un ricordo, l’ultimo: la casetta solitaria d’un colono lombardo, alla Candelaria; la prima casa di colono italiano in cui misi il piede. C’era un bimbo di quattr’anni sull’uscio, e gridava a una sorellina invisibile: — Te vegnet? — Era il primo contadinetto italiano ch’io potevo pigliare in braccio in America; avevo il cuor gonfio dalle commozioni varie della giornata; lo pigliai, ma con troppa violenza; si spaventò, si dibattè, mi sguisciò di mano e si ritirò in un canto a piangere, guardandomi in atto di diffidenza ed io rimasi un po’ vergognato, ma il cuore mi traboccava di affetto e l’amor di patria mi soffocava. Ti mando un buon augurio dal tuo paese, povero piccino, e il bacio sul capo che non ti potetti dare nell’altro mondo. Ma quanti, quanti altri ne rivedo e risento, di tutte le classi sociali, da un piccolo proprietario di sessantamila vacche, che aveva più milioni che capelli, fino al furfantello stracciato, bello come un picarillo del Velasquez, che mi correva dietro ogni mattina col giornale sul marciapiede di via Cangallo, dicendo con la voce roca e supplichevole: — Tómelo Usted! (Lo pigli) Tómelo Usted, socio! — Buone feste, buon anno, piccolo milionario. Buone feste, buon anno, socio.

*
* *


Buon anno anche a voi, care bambine delle scuole italiane, che rivedo ancora, rimaste a mezzo della lezione di storia patria, cercare con gli occhi un appiglio alla memoria nei ritratti di Garibaldi e di Umberto, appesi alle pareti, in mezzo alla carta d’Italia e allo stemma della repubblica platense; care bambine, che io vidi tante volte come a traverso a un velo, mentre scrivevate colle testine curve sui banchi, a traverso a un velo che dovevo cacciar con la mano, poichè dal capo di ciascuna di voi il mio pensiero rivolava per un arco di seimila miglia a posarsi sul capo dei miei figliuoli, e nel mormorìo delle vostre voci sentivo due voci d’un altro emisfero, che mi chiamavano, e mi parevan voci fioche e lamentose d’infermi! Buon anno anche a voi, buon anno a tutti, dalla splendida ricciutella del teatro Colombo al piccolo scamiciato di Tucuman, che pregava con la bocca piena. Che per tutto l’anno venturo nessun posto rimanga vuoto sulle migliaia di banchi delle scuole; che l’orrendo mostro strozzatore dei fanciulli non faccia echeggiare pur un grido d’angoscia nè in una casa, nè in un rancho, nè sotto una tenda; che la salute arrotondi e imporpori i visetti più smunti e più scolorati, dissipando dal cuor delle madri americane ogni inquietudine, come il pampero benefico dissipa ogni velo di nube dal loro cielo. E possiate far tutti un gran passo innanzi, in quest’anno, i nati nell’agiatezza verso la scienza, i nati nella povertà verso la fortuna, i nati nella barbarie verso la civiltà, tutte le bimbe verso la bellezza, tutti i fanciulli verso la forza, e gli uni e gli altri sulla via della bontà e del lavoro, e tutti quanti in quel largo e fecondo sentimento di tolleranza, di benevolenza, d’amor di patria senza superbia e di amor fraterno senza gelosie, il quale solo può far di dieci popoli un popolo, e di quattro razze uno Stato, duplicando nell’unione le forze di tutti. Buon anno, buone feste di Natale, o bambini dell’Argentina. I nostri le faranno con la neve; voi le farete sotto il sole ardente dell’estate. E sia mite il sole a tutti quelli che attraverseranno di galoppo le vaste pianure nude per recarsi dai parenti lontani, e spanda più che mai fresche le ombre sui loro riposi l’ombú solitario e ospitale, e brilli limpida la Croce del Sud nella notte desiderata, e lungo le coste interminabili dorma come un lago immenso l’Atlantico. Buone feste, buon anno a tutti, piccoli porteños e piccoli italiani, piccoli signori e piccoli gauchos, figlioli della città, della pampa, delle selve, delle Ande, maravigliosa generazione multiforme, che vedrete nei vostri ultimi anni una patria argentina trasfigurata e possente, quale appena la desidera o la sogna ora l’alterezza amorosa dei suoi figli o la gratitudine reverente dei suoi ospiti. Buone feste, dalle montagne di ghiaccio ai mari di grano, dai boschi di palme ai deserti di sale, buon anno a tutti, o cari fanciulli d’America, dolci, amati, incancellabili ricordi dell’anima mia.»



De Amicis, Edmondo. “Ai fanciulli del Rio della Plata”, Fra scuola e casa. Bozzetti e racconti. Milano: Treves, 1892.

martes, 31 de enero de 2017

jueves, 26 de mayo de 2016

Sull'Oceano, de Edmondo De Amicis (1889)



«C’eran bene di quei lavoratori avventizi del Vercellese, che con moglie e figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non riescono a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovan lavoro; di quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lora al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido. C’erano anche di quei contadini del Pavese che, per vestirsi e provvedersi strumenti da lavoro, ipotecano le proprie braccia, e non potendo lavorar tanto da pagare il debito, rinnovano la locazione in fin d’ogni anno a condizioni più dure, riducendosi a una schiavitù affamata e senza speranza, da cui non hanno altra uscita che la fuga o la morte. «C’erano molti di quei Calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impasto di segatura di legna e di mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale, o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame, e di quei bifolchi della Basilicata, che fanno cinque o sei miglia ogni giorno per recarsi sul luogo del lavoro, portando gli strumenti sul dorso, e dormono col maiale e con l’asino sulla nuda terra, in orribili stamberghe senza camino, rischiarate da pezzi di legno resinoso, non assaggiando un pezzo di carne in tutto l’anno, se non quando muore per accidente uno dei loro animali. E c’eran pure molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acqua-sale delle Puglie, che con una metà del loro pane e centocinquenta lire l’anno debbon mantenere la famiglia in città, lontana da loro, e nella campagna dove si stroncano, dormono sopra sacchi di paglia, entro a nicchie scavate nei muri d’una cameraccia, in cui stilla la pioggia e soffia il vento. C’era in fine un buon numero di quei vari milioni di piccoli proprietari di terre, ridotti da una gravezza di imposta unica al mondo in una condizione più infelice di quella dei proletari, abitanti in catapecchie da cui molti di questi rifuggirebbero, e tanto miseri, che “non potrebbero nemmeno vivere igienicamente, quando vi fossero obbligati per legge.” Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura.»

De Amicis, Edmondo. Sull’Oceano. Milano: Fratelli Treves, 1889.



Ilustración de Arnaldo Ferraguti para la edición de lujo de Sull’Oceano publicada en 1890 en Milán por la casa editorial Treves.

sábado, 21 de mayo de 2016

"De los Apeninos á los Andes. (Cuento mensual)" en Corazón. (Diario de un niño), de Edmundo De Amicis (1886). Traducción de H. Giner de los Ríos



«Hace muchos años, cierto muchacho genovés de trece años, hijo de un obrero, fue de Génova á América solo para buscar á su madre.
Su madre había ido dos años antes á Buenos Aires, capital de la República Argentina, para ponerse al servicio de alguna casa rica y ganar así, en poco tiempo, algo con que levantar á la familia, la cual, por efecto de varias desgracias, había caído en la pobreza y tenía muchas deudas. No son pocas las mujeres animosas que hacen tan largo viaje con aquel objeto, gracias á los buenos salarios que allí encuentra la gente que se dedica á servir, y las cuales vuelven á su patria, al cabo de algunos años, con algunos miles de pesetas. La pobre madre había llorado lágrimas de sangre al separarse de sus hijos, uno de diez y ocho años y otro de once; pero marchó muy animada y con el corazón lleno de esperanzas. El viaje fue feliz; apenas llegó á Buenos Aires, encontró en seguida, por medio de un comerciante genovés, primo de su marido, establecido allí desde hacía mucho tiempo, una excelente familia del país, que le daba buen salario y la trataba bien. Por algún tiempo mantuvo con los suyos una correspondencia regular. Como habían convenido entre sí, el marido dirigía las cartas al primo, que se las entregaba á la mujer, y ésta le daba las contestaciones para que las mandase á Génova, escribiendo él por su parte algunos renglones. Ganando ochenta pesetas al mes y no gastando nada en ella, mandaba á su casa cada tres meses una buena suma, con la cual el marido, que era muy hombre de bien, oba pagando poco á poco las deudas más urgentes y adquiriendo así buena reputación. Entretanto trabajaba y estaba contento de lo que hacía y lisonjeado con la esperanza de que la mujer volvería dentro de poco, porque la casa parecía que estaba sin sombra con su falta, y el hijo menor principalmente, que quería mucho á su madre, se entristecía y no podía resignarse á su ausencia.

Pero transcurrido un año desde la marcha, después de una carta breve en la que decía no estaba bien de salud, no se recibieron más. Escribieron dos veces al primo y éste no contestó. Escribieron á la familia del país donde estaba sirviendo la mujer, pero sospecharon que no llegaría la carta, porque habían equivocado el nombre en el sobre, y, en efecto, no tuvieron contestación. Temiendo una desgracia, escribieron al Consulado italiano de Buenos Aires para que hiciese investigaciones; y después de tres meses, les contestó el cónsul que, á pesar del anuncio publicado en los periódicos, nadie se había presentado, ni para dar noticias. Y no podía suceder de otro modo, entre otras razones, por ésta: que con la idea de salvar el decoro de su familia, que creía mancharle haciéndose criada, la buena mujer no había dicho á la familia argentina su verdadero nombre. Pasaron otros meses sin que tampoco hubiera ninguna noticia. Padre é hijos estaban consternados; al más pequeño le oprimía una tristeza que no podía vencer. ¿Qué hacer? ¿A quién recurrir? La primera ideal del padre fue marcharse á buscar á su mujer á América. Pero ¿y el trabajo? ¿Quién sostendría á sus hijos? Tampoco podía marchar el hijo mayor, porque comenzaba entonces á ganar algo y era necesario para la familia. En este afán vivían, repitiendo todos los días las mismas conversaciones dolorosas ó mirándose unos á otros en silencio. Una noche, Marcos, el más pequeño, dijo resueltamente: “Voy á América á buscar á mi madre.” El padre movió la cabeza tristemente, y no respondió. Era un buen pensamiento, pero impracticable. ¡A los trece años, solo, hacer un viaje á América, necesitándose un mes para llegar! Pero el muchacho insistió pacientemente. Insistió aquel día, el siguiente, todos los días, con gran parsimonia, y razonando como un hombre. “Otros han ido –decía– más pequeños que yo. Una vez que esté en el barco llegare allí, como los demás. Llegado allí, no tengo que hacer más que buscar la casa del tío. Como hay allá tantos italianos, alguno me enseñará la calle. Encontrando al tío, encuentro á mi madre, y si no la encuentro, buscaré al cónsul y á la familia argentina. Haya ocurrido lo que quiera, hay allí trabajo para todos; yo también encontraré ocupación, al menos lo bastante para ganar con qué volver á casa.” Y así, poco á poco, casi llegó á convencer á su padre. Éste lo apreciaba, sabía que tenía juicio y ánimos, que estaba acostumbrado á las privaciones y los sacrificios, y que todas estas buenas cualidades daban doble fuerza á su decisión en aquel santo objeto de buscar á su madre, que adoraba. Sucedió también que cierto comandante de buque mercante, amigo de un conocido suyo, habiendo oído hablar del asunto, se empeñó en ofrecerle, gratis, billete de tercera clase para la República Argentina. Entonces, después de nuevas cavilaciones, el padre consintió y se decidió el viaje. Llenaron un baulillo de ropa, le pusieron algunas pesetas en el bolsillo, le dieron las señas del tío, y una hermosa tarde del mes de abril lo embarcaron. “Marco, hijo mío –le dijo el padre, dándole el último beso con las lágrimas en los ojos, sobre la escalerilla del buque que estaba para salir–: ¡ten ánimo, vas con un fin santo, Dios te ayudará!”»


De Amicis, Edmundo, “De los Apeninos á los Andes. (Cuento mensual)” en Corazón. (Diario de un niño). Traducido al español de la 44ª edición italiana por H. Giner de los Ríos. Versión revisada por el autor, y exclusivamente autorizada para España y América. Buenos Aires: Cabaut y Cía, Editores, Librería del Colegio, 1923.


Imágenes de la edición citada.

jueves, 19 de mayo de 2016

“Dagli Apennini alle Ande (Racconto mensile)” en Cuore, de Edmondo De Amicis (1886)


«Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America, – solo, – per cercare sua madre.
Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi a servizio di qualche casa ricca, e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio con quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre aveva pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l’uno di diciott’anni e l’altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il viaggio era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito, per mezzo d’un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là da molto tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene. E per un po’ di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare. Com’era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva a Genova, aggiungendovi qualche riga di suo. Guadagnando ottanta lire al mese e non spendendo nulla per sé, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma, con la quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti più urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava ed era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe ritornata fra non molto tempo, perché la casa pareva vuota senza di lei, e il figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si rattristava, non si poteva rassegnare alla sua lontananza.

Ma trascorso un anno dalla partenza, dopo una lettera breve nella quale essa diceva di star poco bene di salute, non ne ricevettero più. Scrissero due volte al cugino; il cugino non rispose. Scrissero alla famiglia argentina, dove la donna era a servire; ma non essendo forse arrivata la lettera perché avean storpiato il nome sull’indirizzo, non ebbero risposta. Temendo d’una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l’avviso fatto pubblicare dai giornali, nessuno s’era presentato, neppure a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa: che con l’idea di salvare il decoro dei suoi, ché le pareva di macchiarlo a far la serva, la buona donna non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero nome. Altri mesi passarono, nessuna notizia. Padre e figliuolo erano costernati; il più piccolo, oppresso da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A chi ricorrere? La prima idea del padre era stata di partire, d’andar a cercare sua moglie in America. Ma e il lavoro? chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E neppure avrebbe potuto partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto allora a guadagnar qualche cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo affanno vivevano, ripetendo ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o guardandosi l’un l’altro, in silenzio. Quando una sera Marco, il più piccolo, uscì a dire risolutamente: – Ci vado io in America a cercar mia madre. – Il padre crollò il capo, con tristezza, e non rispose. Era un pensiero affettuoso, ma una cosa impossibile. A tredici anni, solo, fare un viaggio in America, che ci voleva un mese per andarci! Ma il ragazzo insistette, pazientemente. Insistette quel giorno, il giorno dopo, tutti i giorni con una grande pacatezza, ragionando col buon senso d’un uomo. – Altri ci sono andati, – diceva, – e più piccoli di me. Una volta che son sul bastimento, arrivo là come un altro. Arrivato là, non ho che a cercare la bottega del cugino. Ci sono tanti italiani, qualcheduno m’insegnerà la strada. Trovato il cugino, e trovata mia madre, se non trovo lui vado dal Console, cercherò la famiglia argentina. Qualunque cosa accada, laggiù c’è del lavoro per tutti; troverò del lavoro anch’io, almeno per guadagnar tanto da ritornare a casa. – E così, a poco a poco, riuscì quasi a persuadere suo padre. Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e coraggio, che era assuefatto alle privazioni e ai sacrifici, e che tutte queste buone qualità avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di trovar sua madre, ch’egli adorava. Si aggiunse pure che un Comandante di piroscafo, amico d’un suo conoscente, avendo inteso parlar della cosa, s’impegnò di fargli aver gratis un biglietto di terza classe per l’Argentina. E allora, dopo un altro po’ di esitazione, il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli empirono una sacca di panni, gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero l’indirizzo del cugino, e una bella sera del mese d'aprile lo imbarcarono. – Figliuolo, Marco mio, – gli disse il padre dandogli l’ultimo bacio, con le lacrime agli occhi, sopra la scala del piroscafo che stava per partire: – Fatti coraggio. Parti per un santo fine e Dio t’aiuterà.»

 

De Amicis, Edmondo, “Dagli Apennini alle Ande (Racconto mensile)” en Cuore. Milano: Treves, 1886.


Imágenes: Cuore. Libro per i ragazzi con illustrazioni di A. Ferraguti, E. Nardi e A. G. Sartorio. Milano: Fratelli Treves, 1892.

miércoles, 18 de mayo de 2016

Sull'Oceano, de Edmondo De Amicis (1889)



«Erano i cinque argentini, in compagnia del prete napoletano, che venivano per la prima volta a prua a dare un’occhiata ai loro ospiti. Il prete doveva spiegare al deputato un qualche suo progetto d’impresa finanziaria, perché gli dicea forte, agitando la mano come un ventaglio:  ...si se encontràran los accionistas para un gran banco agricola-colonizador... – Ed io mi unii a loro, spinto da una più viva simpatia, in quegli ultimi giorni, per i figli di quel paese a cui tanti miei concittadini stavano per affidare le sorti della propria vita. E cercavano sul loro viso le impressioni dell’animo. Ma essi guardavano e non dicevano nulla. Gli occhi loro, per altro, e ogni minimo atto rivelavan la soddisfazione d’orgoglio ch’ei risentivano al veder tutta quella gente, la quale andava a chieder sostentamento alla loro patria, la maggior parte per sempre, e i cui figliuoli a venire, nati cittadini della repubblica, avrebbero parlato la loro lingua e non più imparato la propria, e mostrato forse vergogna, come troppo spesso accade, della loro origine straniera. Essi forse, guardandoli, si rappresentavano con l’immaginazione tutti quei mangiatori di terra e trafficanti liguri all’opera, e vedevan guizzare le barche cariche sulle acque del Paranà e dell’Uruguay, allungarsi a traverso alle foreste le nuove strade ferrate degli stati tropicali, alzarsi i canneti di zucchero nei campi di Tucuman, e i vigneti sui colli di Mendoza, e le piantagioni di tabacco nel Gran Chaco, e le case e i palazzi sorgere a mille a mille, e miriametri quadrati di deserto verdeggiare e indorarsi sotto la pioggia dei loro sudori. Un’onda di cose mi venne allora alla bocca, da dir loro. Voi accoglierete bene questa gente, non è vero? Sono volontari valorosi che vanno a ingrossare l’esercito col quale voi conquistate un mondo. Son buoni, credetelo; sono operosi, lo vedrete, e sobrii, e pazienti, che non emigrano per arricchire, ma per trovare da mangiare ai loro figliuoli, e che s’affezioneranno facilmente alla terra che darà loro da vivere. Sono poveri, ma non per non aver lavorato; sono incolti, ma non per colpa loro, e orgogliosi quando si tocca il loro paese, ma perché hanno la coscienza confusa d’una grandezza e d’una gloria antica; e qualche volta sono violenti; ma voi pure, nipoti dei conquistatori del Messico e del Perú, siete violenti. E lasciate che amino ancora e vantino da lontano la loro patria, perché se fossero capaci di rinnegar la propria, non sarebbero capaci d’amar la vostra. Proteggeteli dai trafficanti disonesti, rendete loro giustizia quando la chiedono, e non fare sentir loro, povera gente, che sono intrusi e tollerati in mezzo a voi. Trattateli con bontà e con amorevolezza. Ve ne saremo tanti grati! Sono nostro sangue, li amiamo, siete una razza generosa, ve li raccomandiamo con tutta l’anima nostra!»


De Amicis, Edmondo, Sull’Oceano. Milano: Fratelli Treves, 1889.

Ilustraciones de Arnaldo Ferraguti para la edición de 1890.

sábado, 3 de enero de 2015

"Edmundo De Amicis en Argentina"*



Edmundo De Amicis (1846-1908), autor de la novela Corazón, fue, además de un escritor popular preocupado por la educación y la formación del ciudadano italiano, un incansable cronista de viajes y el testigo lúcido de los procesos migratorios que desde su país se dirigían a Brasil, Uruguay y, más específicamente, a Argentina. En 1884 un viaje a la Argentina signó su producción y la representación de la emigración transatlántica que se impuso como modelo en la literatura italiana y en el imaginario colectivo de este país. Sus libros Sull'oceano e In America recogen sus experiencias y observaciones de la emigración italiana en América del Sud y de los colones inmigrantes en la “pampa gringa”.


Antes de la pampa argentina.
Edmundo De Amicis, además de ser el autor de Cuore. Libro per ragazzi, fue un intelectual de referencia en la cultura italiana por varias décadas, que adhirió al Socialismo, muchas veces incomprendido por la crítica literaria. No se destacó solamente en la literatura de corte pedagógico que contribuyó a la nacionalización lingüística y cultural de los italianos, dentro y fuera de las fronteras nacionales, sino también como periodista y como hombre comprometido con la política, con la cultura y la historia de su nación, unificada después de largas luchas por la independencia y en formación bajo el impulso del Risorgimento.
Su primera producción, de corte periodístico-testimonial, se centraba en cuestiones pertenecientes al ámbito militar y político. Su primer texto, publicado en 1869, fue el reportaje-investigación L'esercito italiano durante il colera nel 1867, un relato de la epidemia de cólera en el sur de Italia. De Amicis participó como testigo, más que como soldado, en los hechos históricos de la Breccia di Porta Pia, el 20 de setiembre de 1870, que determinó, con la toma de Roma por parte de los soldados italianos, la anexión de esta ciudad al Reino de Italia y el inicio de la “Cuestión Romana”, es decir, el conflicto entre Italia y el Estado Pontificio que se prorrogó hasta la firma de los Pactos Lateranenses en 1929. Los artículos en los que De Amicis relató la presa de Porta Pia aparecieron inicialmente en periódicos y sucesivamente fueron reunidos en su libro Impressioni di Roma, publicado en 1870 en Florencia, que era entonces la capital del Reino de Italia.
Fue este el momento en el que De Amicis decidió abandonar su carrera militar y dedicarse completamente a la literatura, al periodismo y luego a la vida política con su adhesión incondicional al Socialismo, de dominio público ya desde 1891. Abandonando ya la línea militar-testimonial, vinculada con la Unificación de Italia, De Amicis escribió varios libros que recogieron sus experiencias de viaje, y que nacieron de su trabajo como periodista durante quince años ininterrumpidos: Spagna (1873), Olanda (1874), Ricordi di Londra (1874), Marocco (1876), Costantinopoli (1877-78). Antes de su libro más conocido, Corazón, De Amicis publicó Poesie (1881), Ritratti letterari (1881), Gli amici (1883).
Cuore. Libro per ragazzi, publicado en 1886, luego de varios años de escritura y de maduración (al menos desde 1878) y de una importante campaña publicitaria por parte de su editor Treves, signará un cambio radical en la escritura y en la imagen de De Amicis, haciendo de él un autor reconocido de un clásico de la literatura infantil, de un exitoso best-seller, que en 1904 será “el libro más leído por el pueblo italiano”, y que en Argentina será, en cierta medida, “censurado” y modificado en las traducciones en Argentina, en el período que va de 1900 a 19401. Con este libro, que alcanzó en 1906 la 300 reedición en Italia, De Amicis logró colocar en el centro de la atención no solamente la literatura popular y la producción literaria para la infancia sino principalmente un universo idealizado y sentimental. De Amicis, a través de este “diario de un niño”, contribuyó a la nacionalización lingüística de un italiano popular que, derivando del toscano, se inscribió en la literatura, según fue propuesto también por Alessandro Manzoni, el autor de I promessi sposi. Se impuso con esta novela una especie de “religión de la patria”, por la difusiòn de una imagen idealizada y virtuosa de la patria, apoyada en los individuos que se formaban como ciudadanos. El título no remite exclusivamente al aspecto sentimental de la formación, sino a la educación como “corazón” de la formación nacional. La escuela es, pues, el corazón de la novela deamicisiana  y es la primera vez en la literatura infantil italiana que esto sucede. Antes de Corazón habían sido publicados en 1837 Il buon fanciullo di Cesare Cantù y Giannetto de Luigi Alessandro Parravicini, pero es con Cuore y con Pinocchio. Storia di un burattino de Carlo Collodi, publicada en partes entre 1881 y 1882, que la literatura infantil en Italia alcanza el punto de máxima expresión, vinculada con la formación nacional después de la unificación.

Argentina: los viajes y las palabras
Edmundo De Amicis, mientras planificaba y escribía la novela Corazón, viajó a la Argentina, acompañado por el pintor Arnaldo Ferraguti, en 1884, precedido por su fama, pues sus libros ya se encontraban en las librerías argentinas, traducidos, desde 1879 al menos. Por ello había sido invitado por el diario “El Nacional” de Buenos Aires, quien había costeado el pasaje y le había ofrecido la posibilidad de dictar varias conferencias en Buenos Aires. Este viaje, por otra parte, le permitió recoger información, como acordado con su editor milanés Treves, para escribir un libro de viaje transatlántico, testimonio de la emigración hacia Sudamérica en el período de mayor intensidad y flujos del proceso migratorio italiano que tenía que titularse I nostri contadini in America. En este viaje, además de entrar en contacto con la realidad de los campesinos de todas las regiones de Italia que emigraban, pudo frecuentar una élite intelectual, social y política argentina, entre los cuales pueden citarse Lucio V. López (que recibió a De Amicis en Montevideo, antes de su desembarco final en el puerto de Buenos Aires, como representante del gobierno argentino entonces presidido por Julio A. Roca), Miguel Cané, Aristóbulo del Valle, Alberto Navarro Viola, Eduardo Wilde, entre otros.
Fue por estímulo e impulso de su editor Treves que finalmente en 1889 verá a la luz su libro Sull'oceano, “ficcionalización” testimonial de su viaje por el océano Atlántico desde el puerto de Génova hasta los puertos de Montevideo y Buenos Aires, en la nave Nord-America que, en la novela, será bautizada como Galileo. La primera edición en español será publicada en Madrid, por el editor Agustín Jubera, en una traducción de Hermenegildo Giner de los Ríos, el difusor y traductor histórico de la obra de Edmondo De Amicis en español, el mismo año de publicación en italiano, con el título En el océano. Viaje a la Argentina, acompañada de una carta-prólogo del autor por pedido del traductor. Otra edición española, con las ilustraciones de Ferraguti, fue realizada por Espasa y Compañía en Barcelona, con traducción de Cayetano Vidal de Valenciano. En Argentina se publicará en 1909 en la Biblioteca de “La Nación”, colección muy accesible a los lectores, sin indicación del traductor; y recientemente, en el 2001, en la Colección Histórica de la Librería Histórica de Buenos Aires en traducción de Luciana Daelli y con prólogo de Roberto Raschella, autor de Diálogos de los patios rojos (1994) y Si hubiéramos vivido aquí (1998), novelas centradas en la inmigración italiana en Argentina. Esta novela de De Amicis, como Cuore, fue un gran éxito editorial: en un año, a partir de su primera publicación, se habían hecho dieciocho ediciones en Italia y para festejar este acontecimiento editorial, Treves publicó en 1890 una edición de lujo que contenía las 191 ilustraciones realizadas por Arnaldo Ferraguti, quien, con su observación “fotográfica”, al igual que De Amicis, marcó el imaginario y las representaciones colectivas de la emigración italiana, especialmente transoceánica.
Esta novela es un relato de la travesía por el océano en compañía de 1600 emigrantes
italianos, que se dirigían principalmente a Buenos Aires, mostrando en esas semanas de viaje no solamente las caracterizaciones más varias del tipo humano, de los emigrantes, sino el micro-universo, en un tiempo cerrado, en un espacio limitado, de la “miseria errante” de su patria. Los contrastes sociales, las diferencias de clases, las tensiones y las dificultades son descriptas y narradas bajo las perspectiva aguda y la observación precisa de De Amicis, quien sin dejar la caricatura, el humorismo y la tensión dramática y sentimental, deja de ofrecer un panorama amplio y complejo del fenómeno emigratorio y social de su país. La narración es también una reflexión político-social sobre los procesos migratorios que interesaron a Italia, nación apenas unificada y modelada según el Risorgimento. Por ello esta novela es una denuncia tanto de la hemorragia que sufrió Italia, como del fracaso de un proyecto político en el que fueron expulsados del país no solo los marginales y los campesinos analfabetas que solo veneraban la tierra y no la patria —concepto ajeno a ellos— sino también los viejos soldados garibaldinos, que habían luchado por la construcción de una patria que, como una madre ingrata e injusta, era ajena al sufrimiento de sus hijos. La narración de la travesía por el océano por parte de los emigrantes, completamente separados del resto de la tripulación, desmonta el mito de la unidad de Italia y de la formación de una patria. Quienes emigran, además, eran ajenos a comprender a Italia como una patria con la cual identificarse. La fragmentación lingüística y cultural, por regiones y por ciudades, hacía que Italia fuera un mosaico cuyas piezas no siempre encontraban una unidad, no obstante la retórica patriótica que había acompañado la campaña de unificación italiana. La amenaza constante del naufragio que acompañaba siempre las travesías ultramarinas en esta novela se vuelve metáfora del fracaso de un proyecto político y de una épica risorgimentale. El terror por el naufragio, los ritos de pasaje, los saltos dolorosos, las muertes, las enfermedades, las desventuras, van constelando el relato de esta travesía y delimitando un espacio narrativo que deviene modelo literario vinculado con la emigración. La perspectiva socialista de De Amicis conjuga la piedad humanística, de corte pascoliano, con la denuncia descarnada según el modelo impuesto por Zola. Así, el desembarco de los emigrantes, ya concluyendo el viaje, funciona elípticamente como un balance político y social en el que el resultado final, doloroso, evidencia un fracaso y el éxodo, no siempre silencioso, que significa la emigración:

“No acababan de pasar nunca, como si se hubieran duplicado durante la noche. Familias y más familias, muchachos y más muchachos, caras de ciudad y del campo, de la alta y de la baja Italia, figuras de gente honrada, de contrabandistas, de enfermos, de ascetas, de viejos soldados, de mendigos, de rebeldes, corriendo con más furia cada vez, como si les apremiara el terror de no llegar á tiempo para encontrar su parte de tierra ó de pan en América.
¡Oh, qué desfile de miseria tan interminable! Y sin poder sujetar la imaginación, veníanseme á las mientes con obstinación y como por escarnio, al ver tanta miseria hambrienta, las llamaradas patrióticas de la gente ociosa, de los bien acomodados y de los ilusos, vociferando con entusiasmo carnavalesco por las plazas de Italia llenas de banderas y de esplendores. La humillación que sentía hacíame apartar la vista de mis compañeros de viaje extranjeros, cuyas afectadas exclamaciones de compasión y de estupor llegaban á mis oídos como injurias á mi país. No cesaban, entretanto, de pasar andrajosas y tristes miserias, mujeres macilentas y criaturas sin patria: desnudeces, vergüenzas y dolores. El espectáculo duró media hora, que me pareció eterna.”2

Hay otros textos que recogen la experiencia de De Amicis en Argentina además de esta novela que originó el “subgénero” literario de la emigración. En Corazón, por ejemplo, encontramos el cuento mensual “De los Apeninos a los Andes”, la historia del niño que, desde Génova, viajó a Buenos Aires, Córdoba, Rosario y, por último, Tucumán, buscando a su madre, emigrada, y de este modo heroico le salva la vida. Este cuento es un clásico que, como sostiene Degiovanni, permitió al lector en Argentina, especialmente a aquel vinculado con la inmigración, “reconocer en esa historia los fragmentos de su propia biografía —o la de sus familiares y amigos—, y recobrarla con matices heroicos”3. Otro texto literario de De Amicis vinculado con la inmigración italiana es su poesía “Gli emigranti”, publicada en su libro Poesie, del 1881, que funciona como una especie de himno de despedida a los emigrantes en el momento en el que parte la nave del puerto, escrita, sin embargo, antes de su viaje a Argentina.
Fundamentales son los artículos de “impresiones” que escribió a partir de su viaje a Sudamérica, publicados en Italia entre 1884 y 1885 en varios periódicos, como L'Ilustrazione Italiana y L'ilustrazione Universale. El primer libro que recoge estos artículos no fue publicado ni en Italia ni en Argentina, sino en España, gracias al empeño de Giner de los Ríos, su traductor histórico. El libro, impreso en Madrid en 1889, en la casa editorial de Agustín Jubera, lleva el título Impresiones de América: acuarelas y dibujos. Diferente es la edición publicada recién en 1897 en Roma por Enrico Voghera en la “Piccola collezione Margherita”. Este libro, que se titula simplemente In America, recoge solamente tres artículos: “Quadri della Pampa”, “I nostri contadini in America” y “Nella baia di Rio Janeiro”. Se trata, entonces, de dos “antologías” o “compendios” diferentes. En Impresiones de América, Giner de los Ríos reunió trece artículos de De Amicis:  “Cuadros de las Pampas”, “A los niños del Río de la Plata”, “Los italianos en Argentina”, “¡Patria (en la bahía de Río Janeiro)! Acuarelas de niños y jóvenes”, “Manicomio de enseñanza”, “Los cómicos y los chicos”, “El librero de los niños”, “La escuela de caballería”, “Reválida de maestras. Retratos de hombres”, “Un dramaturgo patibulario”, “El capitán Bove, explorador”, “Un poeta provincial: Arnulfi” y “Los defensores de los Alpes”. Si la novela-testimonial Sull'oceano es el relato de la emigración y de la travesía de los emigrantes desde el puerto de Génova hasta el de Buenos Aires, estos artículos, reunidos en Impresiones de América y en In America, son la descripción y la narración de los inmigrantes, ya instalados en el “nuevo mundo”, integrados en colonias, integrando a su mundo al poeta que viaja por esas tierras. La visión que ofrece De Amicis es, pues, diferente, porque aquí la impresión no es la de la miseria sino la de la laboriosidad. La vida de los colonos se mueve, entre sacrificios con la esperanza de una recompensa a los esfuerzos. El mundo rural se extiende en medio de la pampa, extensa e infinita como otro mar en el cual se mueven los viajeros y, sobre todo, la mirada de De Amicis. La pampa deviene así otro personaje de estos relatos, de estas “impresiones” como tituló Giner de los Ríos, y en ella se mueven los gauchos, arquetipos de la misma pampa. La frontera resulta otro sujeto más de este relato en el que la maravilla es el motor de los descubrimientos. La redención de los emigrantes míseros radica en su transformación en colonos pues, con dignidad, representan las virtudes del italiano más allá de las fronteras políticas, definiendo así la identidad colectiva de una nación y recuperando, por tanto, los ideales políticos del Risorgimento. La pobreza es también redimida, como puede leerse en la descripción que ofrece de una mujer —de una madre, como Italia— que reúne alrededor suyo a sus hijos, nacidos en las dos orillas del Atlántico:

“Aquella pobre labradora italiana, vista desde lejos con un niño en brazos nacido en el Paraná; con otros hijos alrededor nacidos en Italia; delante de aquella pobre cabaña solitaria sobre la cual ondeaba la bandera italiana en medio de las indefinidas pampas de América, representaba para nosotros el amor de patria y la santidad de familia en la forma más poéticamente dulce, triste y solemne que pueda concebir la mente humana.”4

El sol de América y el último saludo de Italia
Si los artículos escritos por De Amicis son un testimonio válido de la vida en las colonias, su novela Sull'oceano es la más representativa de toda la literatura italiana sobre la emigración y, como tales, son altamente significativos para comprender aún más ciertos procesos sociales que interesaron la formación de la identidad nacional argentina. La última imagen de la novela representa el augurio positivo frente a la emigración, gracias a la generosidad de la nueva madre, la Argentina que acoge a los desterrados.



1 Para el estudio de la recepción —la censura, las adaptaciones y las traducciones— de Corazón en Argentina, en las primeras cuatro décadas del siglo XX, cfr. el libro de Valeria Sardi, Políticas y prácticas de lectura. El caso Corazón de Edmundo De Amicis, (Miño y Dávila, 2011). La censura de este libro en Argentina se debió a un proceso de nacionalización en contraste con la celebración de la identidad nacional italiana propuesta en la novela. Ricardo Rojas en La restauración nacionalista (1909), informe sobre la educación  europa y norteamericana en el que proponía una reforma de la educación nacional, señaló que “usábase en todas [las escuelas], como texto de lectura, el Cuore de D'Amicis, libro excelente como literatura infantil y didáctica, pero hecho para Italia, de suerte que se había dado el caso de un niño argentino que hablaba fervorosamente de la bandera tricolor, y elogiaba patrióticamente el heroísmo de los soldados sardos”. Cuore fue reemplazado por Recuerdos de provincia de Sarmiento, ante la falta de otro material didáctico adecuado (p. 245, La Plata, UNIPE, Editorial Universitaria, 2010).
2 Final del capítulo XX “En el Río de la Plata”, traducción de 1909, en Buenos Aires, pp. 338-339.
3 Degiovanni, Fernando, Los textos de la patria. Nacionalismo, políticas culturales y canon en Argentina. Rosario: Beatriz Viterbo Editora, 2007, p. 105.
4 De Amicis, Edmundo, Impresiones de América: acuarelas y dibujos. Traducción de H. Giner de los Ríos. Madrid: Agustín  Jubera, 1889, p. 63.

*Bravo Herrera, Fernanda Elisa, “Edmondo De Amicis en Argentina” en Claves. Salta: abril, Año XXIII, N° 228, 2014, pp. 12-13. Publicado también en: La Gazeta del Progreso. Periódico del Club del Progreso. Año 3. http://gazetaprogreso.com.ar/?page_id=2039 [Recuperado Agosto de 2014].

Ilustraciones de Arnaldo Ferraguti.

miércoles, 12 de marzo de 2014

Impresiones de América: acuarelas y dibujos, de Edmundo De Amicis (1889)




«Casi todas deseaban volver al país natal antes de morir, al menos una vez, una vez sola para volver á ver al padre, la madre, el pueblo, aquel ángulo del cementerio, aquellos valles, las montañas aquellas. Y no puede definirse la expresión de aquella larga mirada con la cual nos despedían; un adiós mudo, lleno de ternura y de tristeza, de la que ciertamente no éramos nosotros el objeto; pero que, por lo mismo, aun nos conmovía más. Algunas, en fin, por delicado instinto, empujaban á los niños hacia nosotros para que nos auguraran feliz viaje, diciendo: —Da un beso á este señor, que vuelve á nuestro país.— Y salían fuera de la puerta para vernos marchar.
Aquella pobre labradora italiana, vista desde lejos con un niño en brazos nacido en el Paraná; con otros hijos alrededor nacidos en Italia; delante de aquella pobre cabaña solitaria sobre la cual ondeaba la bandera italiana en medio de las indefinidas pampas de América, representaba para nosotros el amor de patria y la santidad de familia en la forma más poéticamente dulce, triste y solemne que pueda concebir la mente humana.»


De Amicis, Edmundo, “Los italianos en la Argentina”, en Impresiones de América: acuarelas y dibujos. Traducción al italiano de Hermenegildo Giner de los Ríos. Madrid: Agustín Jubera editor, 1889.

Poesie, de Edmondo De Amicis (1881)



Gli emigranti


Cogli occhi spenti, con lo guancie cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s’ascende il palco de la morte.

E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra.
Altri un misero involto, altri un patito
Bimbo, che gli s’afferra
Al collo, dalle immense acque atterrito.

Salgono in lunga fila, umili e muti,
E sopra i volti appar bruni e sparuti
Umido ancora il desolato affanno
Degli estremi saluti
Dati ai monti che più non rivedranno.

Salgono, e ognuno la pupilla mesta
Sulla ricca e gentil Genova arresta,
Intento in atto di stupor profondo,
Come sopra una festa
Fisserebbe lo sguardo un moribondo.

Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.

Traditi da un mercante menzognero,
Vanno, oggetto di scherno allo straniero,
Bestie da soma, dispregiati iloti,
Carne da cimitero,
Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.

Vanno, ignari di tutto, ove li porta
La fame, in terre ove altra gente è morta;
Come il pezzente cieco o vagabondo
Erra di porta in porta,
Essi così vanno di mondo in mondo.

Vanno coi figli come un gran tesoro
Celando in petto una moneta d’oro,
Frutto segreto d’infiniti stonti,
E le donne con loro,
Istupidite martiri piangenti.

Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora
Il suol che li rifiuta amano ancora;
L’amano ancora il maledetto suolo
Che i figli suoi divora,
Dove sudano mille e campa un solo.

E li han nel core in quei solenni istanti
I bei clivi di allegre acque sonanti,
E le chiesette candide, e i pacati
Laghi cinti di piante,
E i villaggi tranquilli ove son nati!

E ognuno forse sprigionando un grido,
Se lo potesse, tornerebbe al lido;
Tornerebbe a morir sopra i nativi
Monti, nel triste nido
Dove piangono i suoi vecchi malvivi.

Addio, poveri vecchi! In men d’un anno
Rosi dalla miseria e dall’affanno,
Forse morrete là senza compianto,
E i figli nol sapranno,
E andrete ignudi e soli al camposanto.

Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora
Dai muti clivi che il tramonto indora
La man levate i figli a benedire....
Benediteli ancora:
Tutti vanno a soffrir, molti a morire.

Ecco il naviglio maestoso e lento
Salpa, Genova gira, alita il vento.
Sul vago lido si distende un velo,
E il drappello sgomento
Solleva un grido desolato al cielo.

Chi al lido che dispar tende le braccia.
Chi nell’involto suo china la faccia,
Chi versando un’amara onda dagli occhi
La sua compagna abbraccia,
Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.

E il naviglio s’affretta, e il giorno muore,
E un suon di pianti e d’urli di dolore
Vagamente confuso al suon dell’onda
Viene a morir nel core
De la folla che guarda da la sponda.

Addio, fratelli! Addio, turba dolente!
Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente,
V’allieti il sole il misero viaggio;
Addio, povera gente,
Datevi pace e fatevi coraggio.

Stringete il nodo dei fraterni affetti.
Riparate dal freddo i fanciulletti ,
Dividetevi i cenci, i soldi, il pane,
Sfidate uniti e stretti
L’imperversar de le sciagure umane.

E Iddio vi faccia rivarcar quei mari,
E tornare ai villaggi umili e cari,
E ritrovare ancor de le deserte
Case sui limitari
I vostri vecchi con le braccia aperte.


De Amicis, Edmondo, Poesie. Milano: Treves, 1881.
Imagen: Emigranti de Raffaello Gambogi (1894). Museo Civico G. Fattori (Livorno).