«Durante il mio breve soggiorno a Santa Fè – la vecchia capitale della provincia omonima, di cui è gemma Rosario, seconda città della Repubblica Argentina – conobbi una simpatica coppia di italiani: i coniugi Orlandi.
Ne’ miei ricordi d’America, essi stanno
a rappresentare il tipo caratteristico dei nostri emigrato di cinquant’anni fa,
i quali portarono veramente i penati fuor della patria, per sempre, non
conservando di essa che l’accento e le scolorite memorie dell’adolescenza
lontana, vaghe e imprecise come visioni di una vita anteriore.
I coniugi Orlandi non avevano figli;
tuttavia non sentivano il peso della vecchiaia solitaria, poichè impiegavano
tutto il tempo nel volersi bene, e pare non restasse loro un briciolo d’ozio
per lagnarsi d’esser soli.
Si erano sposati in Italia
giovanissimi, la bellezza di cinquant’anni addietro, ed erano partiti subito
per l’Argentina, non allontanandosi mai più.
Potrei fare il ritratto di quei due
ottimi vecchi, tanto mi son vivi e presenti nella memoria: lui bassotto e
tarchiato, ma eretto sulla vita con tale intenzione di giovinezza da sembrar
più alto di un palmo di quanto effettivamente era; colorito e bruno di viso,
biancheggiante solo nei capelli nelle sopracciglia e nei baffi, simile al
medaglione di bronzo di un monumento spruzzato di neve. Lei grassa e bianca
sotto i capelli biondastri, inchiodata in una poltrona dalla idropisia, che le
acque di Caceuta[1] non guarivano più; ma,
anche nell’infermità, gioviale e buona con tutti, amorosa verso il suo compagno
come una sposa di vent’anni... quand’è amorosa.
Il cavalier Orlandi, maestro di musica
e di scherma, ex-tenente dei bersaglieri – doveva essere stato un bellissimo
bersagliere! – aveva accettato in gioventù una scrittura dal governo Argentino
per un posto di capomusica reggimentale; in testa al suo reggimento aveva
percorso, quando le ferrovie inglesi non esistevano ancora, in lungo e in largo
la Repubblica, da Formosa a Ushuaia, da Bahia Blanca a Tucuman, da Corrientes
al Chubut; e non aveva da frugare a lungo dei ricordi di trent’anni di servizio
attivo (quanto attivo!) per trovare gustoris episodi da raccontarmi.
Ma non gli piaceva di ricordare e
lasciava volontieri la cronistoria del passato alla sua fedele compagna, che l’aveva
seguito di guarnigione in guarnigione, forte e impavida, egli diceva, “come
Anita seguiva Garibaldi”.
Ella, povera signora, lo rimpiangeva,
il passato e ne aveva la civetteria. Quasi immobile sulla poltrona, il viso
bianco le si animava e gli occhi le scintillavano nel ricordo, ch’era tutta la
sua gioia.
Mi parlava delle giornate trascorse a
cavallo, delle notti passate sulla paglia, a fianzo del marito, sotto il cielo
sterminato della pampa, con la
rivoltella carica vicino, dpronta per un attacco di indios o di puma, gli
uomini e le belve del deserto americano, del pari temibili, e dai quali più di
una volta aveva saputo bravamente difendersi. Per lunghi mesi, era vissuta –
sola donna – in un accampamento di soldati, nutrendosi di carne male
abbrustolita sovra un fuoco improvvisato, di pan secco inzuppato del mate, lavandosi in larghe pozzanghere d’acqua
salnitrosa, cavalcando come una zingara con la treccia sfatta sulle spalle,
coricandosi ogni srea vestita, con gli alti stivali di cuoio; aveva veduto
combattimenti, razzie, massacri, cose terribili, e nulla poteva più farle
paura, neppure “el diablo!”
concludeva, ridendo del suo riso grasso che le squassava le flaccide carni
sulle ossa doloranti.
Ma in quella vita selvaggia, piena di
disagi e di pericoli, era stata felice; adorata dai soldati, ossequiata dagli
ufficiali – le migli dei quali non avevano avuto il coraggio di seguirli –
servita come una dama, difesa come una regina. Nelle piccole guarnigioni, la
consideravano la signora del presidio “come una
generala”: aveva organizzato, nelle solennità ufficiali, balli e
festeggiamenti, inaugurato scuole e ospaedali, presieduto istituti di
beneficenza, lasciato ovunque ricordi di pietà e di gentilezza (questo non lo
diceva, ma era facile comprenderlo da qualche discreto accenno, mentre negli
occhi azzurri passava una vaga lucentezza di lagrime): ovunque idoleggiata e
benedetta come una fata.»
Cesarina Lupati, “Irenia” (fragm.), Novella d’oltremare. Milano: Fratelli
Treves Editori, 1920.
[1] Caceuta, sorgente minerale sulla linea che da
Mendoza va alle Ande.
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