«L’emigrazione europea da trenta e più anni ha preso uno
sviluppo considerevole e per alcuni paesi addirittura allarmante. Nei tempi
andati essa era causata, quasi esclusivamente, dalla lotta politica o dal
dissidio religioso. Oggi ben altre e più complesse ed intricate cause
costringono gruppi d’individui di quasi tutta la vecchi Europa – e specialmente
i latini – a varcare l’Oceano. Nè questa vasta corrente sembra voglia
arrestarsi, poichè, tolte speciali circostanze di tempo e di luogo, dalle
statistiche dei diversi stati di Europa possiamo agevolmente vedere che il
numero degli emigranti serba sempre una media costante. Vero è che la progredita
scienza marittima, la faciltà di traffico, i nuovi mezzi di trasporto, la
sicurezza e la sollecitudine con la quale oggi i grossi piroscafi solcano i
mari, compiendo in breve viaggi lunghissimi, altra volta pericolosi, ha in
certo modo favorita l’emigrazione. Ma ben altre cause e d’indole affatto diversa
hanno spinto e continuano a spingere gli europei verso il nuovo mondo. In quasi
tutti i paesi d’Europa, anche negli importanti centri agricoli ed industriali,
la densità della popolazione rende la ricerca del lavoro affannosa e difficile.
La pochezza poi delle terre rispetto al numero degli abitanti costituisce della
proprietà, anche piccola e meschina, l’esclusivo privilegio di una determinata
classe sociale. La mancanza adunque del lavoro ed il desiderio di poter
conquistare quella agiatezza che nel proprio paese sarebbe vano sognare, spinge
ad emigrare specialmente per le Americhe, ove la vastità del suolo, la
scarsezza della popolazione rendono la proprietà, e di conseguenza la
ricchezza, più facilmente conquistabile e la ricerca del lavoro meno affannosa.
A questi due fattori d’indole assolutamente economica,
che sono, senza alcun dubbio, gli unici che hanno prodotto e che producono il
fenomeno dell’emigrazione, bisogna aggiungerne altri affatto speciali. Un
desiderio di novità, di avventure, di ricchezze smodate e non di razionale
miglioramento, consiglia molti di abbandonare il suolo della patria e recarsi
ove credono i loro progetti di facile attuazione. La delinquenza ha anche dato,
maggiormente per lo passato, il suo contingente alla corrente emigratoria:
molti, volendo sfuggire alle patrie galere o al rigore delle leggi, si sono
recati ove l’impunità era sicura per la insufficienza dei trattati
internazionali.
Dalla statistica dell’emigrazione noi constatiamo che
centomila e più italiani lasciano annualmente il suolo della patria divisi in
due grandi gruppi, l’uno diretto verso il Sud, l’altro verso il Nord-America.
Nè bisogna credere che il fenomeno dell’emigrazione – è invalso
il malvezzo di chiamare fenomeno un fatto sociale – sia per l’Italia di lieve o
di trascurabile importanza.
Il traffico emigratorio ha influenza non solo sul
complesso ingranaggio del nostro commercio marittimo, ma anche sul risparmio
nazionale e sullo sviluppo o meno delle nostre classi agricole.
L’emigrazione, negli anni passati, ha reso possibile non
solamente nei maggiori centri agricoli dell’Italia meridionale, ma anche nei
più piccoli e abbandonati paeselli, la formazione di una giovane democrazia
rurale, che ha gradualmente trasformata e modificata nella sua intima struttura
la nostra azienda agricola.
Nell’ora che volge, potrebbe veramente rappresentare
quella tale valvola di sicurezza di cui gli economisti, i sociologhi e gli
scrittori di cose di emigrazione hanno fatto tanto abuso.
Ho sempre sostenuto, al pari altri, certo più autorevoli
di me, che l’avvenire della nostra emigrazione sia nel Sud-America: Argentina,
Uruguay, Brasile, a patto però che sia veramente ed efficacemente protetta dal
nostro Governo e sorretta dal capitale italiano.
Raccolgo in un volume una parte di quanto pensai, scrissi
e pubblicai sull’Argentina.
L’argomento mi sembra di attualità.
Credebo che molte delle modeste osservazioni fatte
fossero sorpassate dal tempo e distrutte dalla critica. M’ingannavo. Il
problema posto allora permane ancora oggi.»
R. M. Vulcano. L’Argentina
e l’immigrazione italiana. Napoli, 1926.
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