«È nostro intendimento di abbozzare un sintetico saggio
di trattazione giuridica dell’argomento dell’emigrazione, saggio basato sui
criterî generali della Scienza del Diritto, e svolto e portato a compimento con
ordine strettamente sistematico.
Nessun studioso del Diritto Amministrativo ignora, quanto
sia per lo più rimasta, specie in Italia, trascurata dai giuristi scientifici,
fino a qualche tempo fa, tutta la parte speciale di questo Diritto, e
particolarmente come sia stato troppo a lingo abbandonato alla pedestre e
facile esegesi l’esame, dal punto di vista giuridico pure così importante, di
quei principî legislativi che reggono le diverse banche dell’attività
cosiddetta sociale dello Stato, tanto nel lato di essa che si profila
immediatamente tra lo Stato e i suoi organi, quanto in quello che si delinea
tra lo Stato e i sudditi con comandi e divieti.
Sarebbe invece nostro desiderio (conformemente agli
esempi dei valorosi seguaci della nuova scuola italiana di diritto pubblico),
oltre allo esporre le prescrizioni positive circa la intromissione statuale nel
fenomeno dell’emigrazione, riannodare le figure giuridiche che si sviluppano
nella specie considerata con i principî generali del Diritto Amministrativo,
riconnettere la parte speciale con la parte generale dello stesso.
[...]
Quando è che possiam dire di trovarci in presenza dell’emigrazione?
La risposta a questa domanda è di grande importanza per
il buon esito della indagine, perchè, come ben osservava il Boccardo, “indipendentemente
dalla intrinseca gravità della quistione e dalla singolare complessità dei dati
sui quali riposa, uno dei motivi della incertezza che, dopo tante biblioteche
consacrate a trattarlo, circonda ancora il tèma dell’emigrazione, sta, a creder
nostro, nella poca esattezza, con la quale si usò comunemente formularlo. Per
le questioni scientifiche vale perfettamente l’aforisma sentenziato, dopo
Aristotile, da Goethe, per gli intelletti umani: il più arduo còmpito è di
trovarne e di segnarne esattamente i limiti”.
Ed in via preliminare notiamo a questo proposito che, se
(come vedremo a suo luogo) è a discutersi, e fu discusso, circa la maggiore o
minore convenienza di definire e circa il modo di definire nelle prescrizioni
di legge le caratteristiche sì dell’emigrazione che della persona dell’emigrante,
niuno ha mai contestato che alla scuola e alla scienza (sociale e giuridica)
non solo sia utile ma necessaria una delimitazione precisa del fenomeno che si
intende di studiare.
E sempre in via preliminare dobbiamo domandarci quale sia
il metodo in base alla quale potremo decidere così a priori se l’una piuttosto che l’altra definizione della
emigrazione, è più o meno giusta, più o meno corrispondente a verità. Perchè,
quando la definizione d’un fatto sociale corrisponde esattamente a qualche cosa
che esiste nella realtà, resta sempre questione assai grave il vedere se
veramente quel complesso di rapporti che è compreso sotto la definizione
costituisce il fenomeno definito, oppure tal fenomeno si cia fornito da una
serie di dati rapportati ad altro termine definiente. Se non si è
preventivamente d’accordo sopra l’entità e l’estensione del definiendo è assai malagevole stabilire
la maggiore o minore esattezza della definizione. Quando la definizione sia
logicamente ed etimologicamente corretta, riassuma tutti i dati essenziali del
fenomeno che si pretende definire, e lo svolgimento di questi dati non impinga
contro leggi o terminologie scientifiche già assodate; non può una definizione
respingersi dall’ambito della scienza, solo perchè, partendo da diversi
presupposti, si ha un concetto differente del complesso di fatti che si intende
raccolto sotto il termine definiente.
Dobbiam quindi avvertire che, secondo noi, in materia
(come l’attuale) su cui anche la cognizione volgare ha esercitato la propria
indagine, una corretta definizione scientifica del fenomeno potrà allora
soltanto aversi quando si coordini il complesso delle note che caratterizzano e
distinguono i fatti sociali sottoposti dal sapere comune al termine “emigrazione”
con le leggi e il linguaggio scientifico già accolti e prefissati.
In base a questo processo, noi riteniamo possa giungersi
alla seguente definizione, da prendere come punto di partenza. Il fenomeno
sociale dell’emigrazione consiste nel passaggio volontario di un numero
qualunque d’individui residenti in uno Stato nel territorio d’un altro Stato, o
in quello di una colonia o possedimento del primo Stato, coll’intenzione di
risiedervi per un dato periodo di tempo, esercendo o impiegando ivi le proprie
forze di produzione e di consumo, attendendovi cioè a una data industria,
professione, arte, commercio o mestiere, o vivendo a carico o insieme ad altro
individuo che attende appunto ad una delle accennate applicazioni.
Analizziamo un momento gli elementi che convergono nella
posta definizione.
Indice e caratteristica sostanziale della emigrazione è
il cambiamento di residenza che avviene per parte d’una quantità d’individui.
Ma questo cambiamento di residenza (presa la parola residenza non nel senso specifico
giuridico, ma nel senso generico ed usuale del vocablo), perchè possa farsi
rientrare sotto il concetto di “emigrazione”, occorre che avvenga dal
territorio statuale a quello d’un altro Stato o d’un possedimento o colonia del
primo.
Non dipende se non dal linguaggio empirico comune il
criterio in seguito al quale un mutamento di residenza che avvenga ad es. nell’interno
d’uno Stato non ricade sotto il fenomeno emigratorio. E se lo si vuol tradurre
almeno con terminologia scientifica, bisogna (secondo noi) così rilevarlo: è
emigrazione il mutamento di residenza che abbia luogo dal territorio d’una
persona di diritto pubblico al territorio d’un suo possedimento o colonia, o a
quello di altra persona di diritto pubblico, con cui la prima sia collegata da
un rapporto soltanto di diritto internazionale. Così i cambiamenti di residenza
che avvengono da un comune rurale ad un comune cittadino non sono compresi nell’emigrazione;
non lo sono i passaggi da una regione ad un’altra nello stesso Stato; non
quelli che si verificano tra due Stati di uno Stato Federale.[1]
Sono emigrazione i passaggi dallo Stato alla colonia, quelli (ad es.) tra Stati
d’una Confederazione, quelli fra Stati tra cui corra il vincolo della
cosiddetta unione personale.
In secondo luogo occorre che il cambiamento di residenza
sia volontario.
Non è qui il luogo di abbandonarsi a discussioni
trascendentali e metafisiche sopra questo estremo, riannodandolo ad una delle
più tormentose e tormentate questioni della filosofia; nè di indagare se questa
volontà si determini o meno necessariamente e spinta fatalmente da elementi ad
essa estrinseci; nè se la legge dei grandi numeri faccia apparire regolare e
fisso ciò che erroneamente si può
ritenere prodotto dalla volontà conscia, autonoma e indipendente degli
individui.
Ma è certo però che (determinata o meno, spontanea o
meno) è necessario, inerendo all’uso normale del vocabolo “emigrazione”, l’intervento
della volontarietà nella decisione del cambiamento di residenza: [2]
un singolo, espulso coattivamente da un aggregato sociale, non è un emigrante.
Perciò a ragione osserva il Rümelin “che mentre le
nascite e le morti appaiono come fenomeni fisiologici della vita individuale,
le emigrazione, altro fattore del movimento della popolazione, sono il prodotto
di un atto volontario dell’uomo”.
E indifferente invece Ioltre il rapporto di mero fatto
della residenza) il rapporto giuridico che collega l’emigrante con lo Stato da
cui parte. Tal rapporto potrà avere un valore (e lo vedremo in seguito)
relativamente alla ingerenza del potere statuale nel fenomeno migratorio, ma
dal punto di vista sociale l’individuo che abbandona volontariamente uno Stato
(ove risiede) per passare in un altro, sia o no suddito o cottadino del primo,
è sempre un emigrante.
Necessario da ultimo onde caratterizzare l’emigrazione è
l’elemento intenzionale, richiamato e descritto nella definizione.
Ad ed. chi vive d’entrata e si trasferisce all’estero
onde godere a piacimento dle proprio patrimonio non contribuisce all’emigrazione,
come non è emigrante chi si reca all’estero per ragione di ufficio pubblico
esercitato nel proprio paese, per amore di studio, per viaggio di diletto, per
visitarvi un parente, esclusivamente per isfuggire ad una pena.
Non tutti adunque gli individui che cambiano residenza, e
da uno Stato passano in un altro, sono emigranti.
Riteniamo invece non dover costituire parte integrante
del concetto sociale dell’emigrazione lo estremo dell’“animo di stabilirse
durevolmente all’estero” o quello più radicale, ma analogo, “dell’animo di
stabilirsi all’estero senza speranza, nè pensiero di ritorno”, estremi che
taluno vorrebbe aggiungere a quelli da noi elencati.
La diversità tra gli intendementi che inducono all’emigrazione;
le diversità cioè tra quello di stabilirsi per poco, e tra quello di stabilirsi
durevolmente o per sempre altrove, può contribuire a dinstinguere, secondo gli
stessi, diverse specie di emigrazione, ma l’emigrazione sussiste sempre, purchè
un individuo, trasportando all’estero la propria residenza per ivi esercitare
la propria forza di lavoro e la propria potenzialità di consumo, sia animato
dall’intenzione di soggiornare all’estero a tale scopo per un qualunque periodo
di tempo.»
Luigi Raggi, L’emigrazione
italiana nei suoi rapporti col diritto. Saggio. Città di Castello: S. Lapi
Tipografo Editore, 1903.
[1] Si noti
però che è gravissima quistione se il rapporto che esiste fra lo Stato Federale
e gli Stati-membri, e questi Stati-membri fra loro sia un rapporto meramente di
diritto pubblico interno, oppure affetti anche il diritto pubblico estermo.
[2] Se l’emigrante
non ha ancora la capacità fisica o giuridica d’una volontà, occorre che la
volontarietà e l’elemento intenzionale sussistano in chi ne ha la rappresentanza
legale.
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