sábado, 29 de septiembre de 2018

El frutero de los ojos radiantes, de Nicolás Casullo (1984)




«Ella tenía diez años y dormía con su hermana porque eran huérfanas: así le contó Giovanna tomando la leche caliente en la posada del puerto de Génova. Ella también le dijo que su tío estaba allá, en América, desde hacía diez años y con muchas casas compradas para vivir; muchas casas le volvió a decir Giovanna cuando el hombre de la bufanda anunció que habría tormenta en el mar. Ese miedo de verlo durmiendo con los ojos abiertos y su padre que desató la valija, buscó el paquete de cartas y el dinero y lo escondió dentro de la camiseta y cerró la valija, la puso contra la mampara de la bodega para apoyar la cabeza y roncar fuerte, como siempre, pero al lado suyo y non en la pieza de arriba, en Savona, donde siempre oía que roncaba. Giovanna era también del Ligure pero vivió en un pueblo donde el mar llevaba el viento a la tierra y la montaña no podía pararlo. Ella no conocía Savona ni los árboles golpeando las ramas antes de la lluvia: el abuelo se agachaba para morder terrones o deshacerlos con las manos y después se lamía los bigotes: el abuelo miraba la tierra como si hubiese algo distinto en los sembrados y en el cielo más frío allá arriba que ahí abajo o tan frío como el aire del agua contra el barco. Giovanna con las manos azules tuvo también esa mañana, en el puerto de Génova, el color de la cara del abuelo: tío Lorenzo la ayudó con su bolsa de longanizas porque Giovanna tenía que entrar a la oficina de embarque y mostrar su pasaje con las manos azules. Ella dormía a pesar del barco moviéndose y que a veces, de noche, daba la sensación de estar parado en el mar. Pero ella no era de Savona y cuando la conoció en la posada y caminaron por Génova hasta la virgen de la Anunciación, la hermana de Giovanna entró a comprarse aros en la tienda de la mujer elegante, la mujer de cara pintada y de rodete, como le gustaba  a tío Lorenzo, que esa noche llegó a la posada con otros dos hombres y su padre los abrazó pata encerrarse con ellos en la pieza. Para golpear las botellas y estrellar sus trompadas en la mesa y salir del cuarto ya de madrugada, borracho, llorando igual que tía Filomena cuando le contaba de su madre enferma y escondida en la iglesia o en el cielo blanco de la montaña.»

Nicolás Casullo, El frutero de los ojos radiantes. Buenos Aires: Folios Ediciones, 1984.

Una excursión a los indios ranqueles, de Lucio V. Mansilla (1870)




«Ese es nuestro país.
Como todo pueblo que se organiza, él presenta cuadros los más opuestos.
Grandes y populosas ciudades como Buenos Aires, con todos los placeres y halagos de la civilización, teatros, jardines, paseos, palacios, templos, escuelas, museos, vías férreas, una agitación vertiginosa ―en medio de unas calles estrechas, fangosas, sucias, fétidas, que no permiten ver el horizonte, ni el cielo limpio y puro, sembrado de estrellas relucientes, en las que yo me ahogo, echando de menos mi caballo.
Fuera de aquí, campos desiertos, grandes heredades, donde vegeta el proletario en la ignorancia y en la estupidez.
La iglesia, la escuela, ¿dónde están?
Aquí, el ruido del tráfago y la opulencia que aturde.
Allá, el silencio de la pobreza y la barbarie que estremece.
Aquí, todo aglomerado como un grupo de moluscos, asqueroso, por el egoísmo.
Allí, todo disperso, sin cohesión, como los peregrinos de la tierra de promisión, por el egoísmo también.
Tesis y antítesis de la vida de una república.
Eso dicen que es gobernar y administrar.
¡Y para lucirse mejor, todos los días clamando por gente, pidiendo inmigración!
Me hace el efecto de esos matrimonios imprevisores, sin recursos, miserables, cuyo único consuelo es el de la palabra del Verbo: creced y multiplicaos.»



Lucio V. Mansilla, Una excursión a los indios ranqueles, Buenos Aires, Imprenta, Litografía y Fundición de Tipos Buenos Aires, 1870.



lunes, 24 de septiembre de 2018

Noi siam partiti (Merica, Merica) de Angelo Giusti (1875)




Video inedito estratto dalla raccolta dei primi 3 cd dei Ciansunier (Canto Popolare degli Emigrati Veneti)


«Dall' Italia noi siamo partiti
Siamo partiti col nostro onore
Trentasei giorni di macchina e vapore,
ed in America siamo arrivati.

America, America, America,
cosa sarà questa America?
America, America, America,
un bel mazzolino di fiori.

E in America noi siamo arrivati
non abbiamo trovato né paglia e né fieno
Abbiamo dormito sul nudo terreno,
come le bestie abbiamo riposato.

America, America, America,
cosa sarà questa America?
America, America, America,
un bel mazzolino di fiori.

L'America è lunga e larga,
è circondata dai monti e dai piani,
e con l'industria dei nostri italiani
abbiamo formato paesi e città.

America, America, America,
cosa sarà questa America?
America, America, America,
un bel mazzolino di fiori.

America, America, America,
cosa sarà questa America?
America, America, America,
un bel mazzolino di fiori.»


Originale in dialetto veneto:

«Dalla Italia noi siamo partiti
Siamo partiti col nostro onore
Trentasei giorni di macchina e vapore,
e nella Merica noi siamo arriva'.

Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.

E alla Merica noi siamo arrivati
no' abbiam trovato nè paglia e nè fieno
Abbiam dormito sul nudo terreno,
come le bestie abbiam riposa'.

Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.

E la Merica l'è lunga e l'è larga,
l'è circondata dai monti e dai piani,
e con la industria dei nostri italiani
abbiam formato paesi e città.

Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.

Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.»

L'emigrazione nella legislazione comparata, de Cesare Festa (1904)





«Nell’Argentina vige la legge 19 Ottobre 1876 completata dal Regolamento sullo sbarco degli Immigranti 4 Marzo 1880.
All’art. 5 di detta legge, fra le attribuzioni degli agenti governativi creati per promuovere l’immigrazione dell’Argentina (art. 4) si legge al § 2: “Fare propaganda in favore dell’immigrazione della Repubblica Argentina, facendo conoscere l sue condizioni fisiche, politiche e social, i suoi rami principali d’industria, il suo sistema coloniale, i vantaggi offerti all’immigrante laborioso, il prezzo dei terreni, le facilitazioni per acquistarli, la misura delle mercedi, il prezzo degli articoli di consumo e quello del prodotto delle colonie, e tutti quegli altri dati che rispondono ai fini di questa legge; fornire gratuitamente a tutti gli immigranti le informazioni che questi chiedessero sulla Repubblica Argentina.”
E tutto ciò sotto la direzione del Dipartimento generale d’immigrazione creato sotto l’immediata dipendenza del ministero dell’Interno (art. 1), il quale dipartimento, appunto, oltre alla corrispondenza attiva e diretta cogli Agenti d’Immigrazione ecc. (§ 1°) deve proteggere l’immigrazione che sia onorevole e laboriosa, e consigliare misure per contenere quella che fosse viziosa ed inutile.
“Fare contratti per trasporto di immigranti, con una o più compagnie di Navigazione, assoggettando i contratti all’approvazione del potere esecutivo;
“Provvedere al collocamento degli immigranti coll’intermedio degli uffici appositi;
Impiegare tutti i mezzi posti a sua disposizione per favorire e facilitare l’invio degli immigranti nell’interno del paese;
“Dirigere l’immigrazione ai punti che dal potere esecutivo, d’accordo con l’Ufficio delle Terre e Colonie, saranno designati per essere colonizzati.”
Di più; “Commissioni d’immigrazione” dipendenti dal Dipartimento centrale (art. 6) debbono per l’art. 8:
1. “Ricevere, alloggiare, collocare e trasportare gli immigranti da un punto ad un altro soggetto alla loro giurisdizione.”
2. “Fare una propaganda attiva in favore della immigrazione nei rispettivi territorio, dimostrando la natura delle industrie sorte o suscettibili di sorgere in essi, la misura ed i salari, la bontà del clima e i vantaggi che essi territorio offrono.”
3. “Promuovere nelle rispettive località, la formazione d’associazioni particolari per favorire il collocamento degli immigranti”.
4. “Ottenere dalle autorità di provincia, dai municipio e dai particolari, sussidi in terre, danari ed oggetti di valre per impiegare a pro’ degli immigranti; ecc.”
Oltre di ciò la legge sopra citata contiene negli articoli seguenti altre disposizioni a favore degli immigranti che meritano di essere integralmente ricordate:
1. Essere alloggiato e mantenuto a spese della Nazione durante il tempo fissato negli art. 45, 46 e 47.
2. Essere occupato nel lavoro od industria esistente nel paese, alla quale preferisca dedicarsi.
3. Essere trasferito, a spese dello Stato, al luogo della Repubblica, ove intenda fissare il suo domicilio.
4. Introdurre, liberi da ogni diritto, le suppellettili, i vestiti, gli strumenti agricoli, le ferramenta, i prodotti dell’arte od ufficio che esercita ed un’arma da caccia, se inmigrante adulto, fino alla concorrenza del valore fissato dal potere esecutivo.
Art. 15. – “Le disposizioni dell’articolo precedente sono estensibili, in quanto sono applicabili alle done ed ai figli degli immigranti, purchè comprovino la loro moralità e le attitudini industriali, ove siano adulti.”
Art. 16. – “La buona condotta e le attitudini industriali dell’immigrante potranno attestarsi con certificati dei Consoli o degli agenti di immigrazione della Repubblica all’estero, o con certificati delle autorità del domicilio dell’immigrante, legalizzati dai suddetti consoli ed agenti d’immigrazione della Repubblica.”
Art. 45. – “Gli immigranti avranno diritto ad essere alloggiati e mantenuti convenientemente a spese della Nazione, durante i cinque giornisusseguenti allo sbarco.” […]
Art. 46. – “In caso di grave infermità che renda impossibile il cambiamento di domicilio, sopo superati cinque giorni, le spese susseguenti d’alloggio e mantenimento continueranno ad essere a carico dello Stato, durante tutto il periodo della malattia.”
“Fuori di questo caso, la permanenza degli immigranti nello stabilimento per più di cinque giorni, sarà a loro spese, dovendosi pagare una mezza piastra forte (L. 2,40) al giorno per ciascuna persona maggiore di 8 anni; e 25 centavos (L. 1.15) per ciascun bimbo minore di detta età.”
Art. 47. – “Si eccettuano dal disposto dell’articolo precedente, gli immigranti contrattati dalla Nazione per le colonie, i quali avranno diritto all’alloggio ed al vitto sino a tantoche saranno inviati alla loro destinazione.”»

Avv. Cesare Festa. L’emigrazione nella legislazione comparata. Castrocaro: Tipografia Moderna, 1904.

Falso contacto, de Ana Ojeda (2012)





«Las relaciones Marano-Moliterno habían sido complicadas desde siempre. Si todos hubieran sido italianos, la convivencia ya hubiera sido difícil. Mujeres imposibles de compaginar: gritonas, trágicas, melodramáticas. Fuertes. Verdaderos motores del hogar. Pero no eran sólo italianos: eran italianos del sur, calabreses. De Cosenza y de Catanzaro. Los Marano, en realidad, eran originarios de Figline, un pequeño pueblito de montaña, como un porcino –u cozzu nivuru– adosado al costado de la Sila, a unos quince kilómetros de Cosenza. Allí habían nacido todos menos Aquiles, hermano menor de Odiseo. Unos tras otros vistos al mundo gracias a las labores incuestionables de parteras autodiplomadas, expertas a fuerza de prueba y error. Figlineses que un día bajaron a Cosenza y ya no volvieron más que para saludar a la parentela. Cosentinos por adopción, en su círculo íntimo no se abstenían de sonreír con la famosa cantinela: Se la merda fosse oro Catanzaro che tesoro!
Los Moliterno eran menos escandalosos, pero igual de tajantes a la hora de opinar de sus vecinos. No se explayaban en críticas o ironías porque se preservaban con gran cuidado para el futuro: cuando tengamos i sordi y seamos gente de tratar con respeto. Sólo invertían sus energías en trabajar: Lavorare e non pensare, repetía don Ermes, aplicándose a la venta de especialidades calabresas en un pequeño local a quince minutos a pie de la casona. La máxima había resultado efectiva, que incluso habiendo llegado varios años después que los primeros Marano, los Moliterno habían logrado una posición más holgada y mejores perspectivas para sus hijos, de los cuales algunos hasta habían hecho algunos años en la escuela pública.»

Ana Ojeda, Falso contacto. Buenos Aires: Milena Caserola, 2012.


Bambina, de Laura Caime (2017)




«Es una historia antigua que pide su final. A un hombre le duele una pierna. Hace mucho que sufre. Toma el té en hebras y come galletas de sémola. Es sordo. Es italiano. Es el padre de mi madre muerta.

Hay cierta luz y unos pájaros. Hay el dolor. Y un gran amor.

Hay, también, una nena que habla, que no deja de ser la voz de la adulta que esa niña fue.»


Laura Caime. Bambina. Ilustraciones de Silvina Viaggio y la autora. Córdoba: Alción, 2017.

domingo, 23 de septiembre de 2018

La inmigración en el primer siglo de la independencia, de Juan A. Alsina (1910)




«Entre los problemas que se han de resolver para perfeccionar la nacionalidad argentina, legados por las generaciones que han actuado en el siglo primero de la Independencia, á las generaciones que en el segundo ejercerán el gobierno, es uno de los primeros la incorporación á la ciudadanía de los hombres que como inmigrantes entran al país y tienen capacidad y méritos suficientes para no quedar limitados á ser meros habitantes, con fueros de tales, sin el fuero de argentinos.
Ese problema debe ser atendido, sin mayor dilación, con prudencia, serenidad y firmeza, antes que se haga más complejo por la venida de mayor número de extranjeros.

La inmigración debe ser recibida en la República Argentina, con el criterio de su incorporación á la comunidad nacional, haciéndola fijar su hogar en el territorio, con todas las obligaciones y derechos que la Patria impone y concede á los ciudadanos.
Así fue establecido en nuestra Constitución, como generosa ventaja que podría ser aceptada fácilmente y con agradecimiento por todos los hombres del mundo, á quienes se brindaba una nueva patria, con el goce de la libertad é igualdad civil, sin fueros personales, ni aristocracia.
La nueva patria no sería impuesta al extranjero que se amparara del Sol simbólico; se esperaba que él la adoptara, apresurándose, en los términos de la ley, á aceptar las obligaciones y los derechos de la ciudadanía, desprendiéndose de su patria natural, el suelo de su nacimiento, instituciones que lo educaron y rigieron, vínculos de familia, lazos de la amistad, recuerdos nacionales: de esos profundos sentimientos que no pueden hacer desaparecer del alma de ningún hombre ni aún los desengaños políticos, injusticias ó persecuciones.
La realidad fue otra. Ese extranjero no borró de su alma la patria nativa para hacerse ciudadano argentino, y aún más, no ha permitido que los hijos que trajo en su familia, se hicieran argentinos. Ni en el primer tiempo de su arribo, ni después de los largos años de su residencia definitiva en nuestro suelo, cuando hubo conocido bien la ventajosa situación en que se hallaba para sus intereses materiales y condición civil, y la situación política á que podía aspirar, pudo ó quiso quitar de su alma aquella patria de la que quizá fue soldado asistiendo á batallas de triunfo nacional interno ó externo, á la que oferta desde el suelo argentino la dignidad y la fortuna alcanzada. Tal vez ama dos patrias, dos suelos, el nativo y el del bienestar; á éste por que lo regó con el sudor de su frente y en él nacieron algunos de sus hijos, que son argentinos, como lo serán todos sus descendientes.


La persistencia, durante más de medio siglo, de este hecho de no adopción por el inmigrante, de la nacionalidad ó ciudadanía argentina generosamente puesta á su disposición y no impuesta por ley, ha dado lugar á una falsa noción, de que debemos precavernos, que circula ya con volumen, acariciada por los extranjeros inmigrados y aceptada sin examen, creyéndola sin importancia por el público, es decir, por los papeles diarios que dan lectura á la opinión, y por personas que repiten inconscientemente palabras cuyo valor ó trascendencia no alcanzan.
Esa noción es la de colonia ó colectividad. Así se dice la colonia argentina en París; la colonia italiana en la Argentina; la colonia alemana en Buenos Aires; la colectividad francesa, la colectividad inglesa; la colonia siria, ú otras.
Es una falsa noción que se opone á la noción positiva de patria argentina. Dentro de una nación como Francia, Gran Bretaña, Alemania, Estados Unidos, República Argentina, ó cualquier otra, no hay ni puede haber colonias ó colectividades, sino una sola colectividad ó comunidad, la comunidad nacional, francesa, británica, española, yankee, argentina, ó la de la nación de que sea toda su población. En la Argentina no puede haber otra colectividad que la única: argentina. Ni tampoco colonias de ninguna otra nacionalidad, porque colonia significa una población fundada en un territorio sin dueño, soberano ó gobierno, para tomar posesión de él, conquistarlo, poblarlo, explotarlo, como se hizo en la edad antigua para expansión de Fenicia, Roma y Grecia, y en la edad moderna por España, Inglaterra, Francia, Portugal, cuyas colonias dieron origen á las grandes naciones de ambas Américas, ó las más recientes ocupaciones del suelo africano.
Esa falsa noción de colonia ó colectividad, causa el ensimismamiento y aislamiento de los inmigrantes de cada nacionalidad, privándoles de fraternizar entre ellas y fundirse en el pueblo argentino, resultando un sentimiento refractario á la ciudadanía, formando en el país conglomeraciones de grupos de tal ó cual nacionalidad, que están cercanos entre sí, pero separados; y desunidos de los argentinos, que tienen  obligación, por sus deberes políticos, de velar por la seguridad y bienestar de esos habitantes; llegándose hasta á hacer propaganda para formar confederaciones entre las Sociedades extranjeras para fines de conservación de su nacionalidad, dando más cohesión y fuerza á la anhelada colectividad.
La noción que debe prosperar, desechando imperiosamente aquella otra, es la de inmigración, que consiste en la entrada del extranjero, individualmente, para unirse á los argentinos, incorporándose á la nacionalidad, como la ley lo establezca, participando de la vida económica, social y política del pueblo fundador de la nación; de sus propósitos, sentimientos, ventajas y adversidades, sin encerrarse en agrupaciones cultoras de recuerdos con el símbolo de banderas transoceánicas, sino saturándose de la historia é instituciones argentinas, bajo la bandera del Sol, que da protección tan grande y buena como las que tienen cruces, estrellas, águilas, leones ú otros signos heráldicos por emblema.
La República Argentina no recibe colonos sino inmigrantes, para el aumento de la población de su territorio, dedicado á la humanidad, bajo su ley, su lengua, su protección, su escudo, su oliva, su encina y su laurel.»



Juan A. Alsina, La inmigración en el primer siglo de la independencia. Buenos Aires: Felipe A. Alsina, 1910.



martes, 18 de septiembre de 2018

La divina, de Silvina Ocampo




«A los veinte años abrió un consultorio; la clientela acudía de todas partes. Como provisionalmente se había instalado en los fondos de un almacén, estaba bastante protegida de la persecución policial. Su cuarto era una suerte de depósito lleno de latas de aceite y de bolsas de yerba; nadie sospechaba que allí se ocultaba el consultorio de una adivina. Irma se enriqueció rápidamente. Cuando cumplió treinta años, compró con las economías un tapado de zorrino, luego un televisor, un terreno en Burzaco, una casita en La Lucila, un automóvil y finalmente pudo hacer un viaje a su tierra natal, a Italia. Su dicha no tenía límites. Emprendió, después de seis meses, el viaje de regreso, en barco, se entiende, porque detestaba los aviones. Sin embargo, en cuanto pagó el pasaje tuvo una premonición. Después de salir de la agencia de turismo entró en un cinematógrafo sin mirar la cartelera: daban El hundimiento del Titanic. La película le pareció de mal augurio (nunca lloraba; lloró), pero ya era tarde para devolver el pasaje. Una semana después se embarcó. La vida de a bordo le agradaba; había una piscina, donde nadaba todos los días, y gente muy simpática. Sin sospechar que era adivina, un grupo animado de jóvenes estaba continuamente con ella, porque jugaba bien al ping—pong y a las barajas; por fin un día, alguien que la conocía de nombre propagó el secreto de su profesión y ella se vio obligada a leerles a ocho personas, en una tarde, las líneas de la mano. La cosa comenzó a las tres de la tarde y terminó a medianoche. En la primera mano que le tendieron, vio el signo alarmante que descubrió en todas las otras; una misma tragedia reuniría a esa gente tan diversa. A todos dijo lo que leía en sus manos, pero no les dijo cuál era la tragedia, porque no lo supo, en el primer momento. El barco que se mecía suavemente durante toda la travesía, a medianoche empezó a moverse demasiado; pero a esa hora todo era un pretexto para inventar juegos y el grupo que la rodeaba se puso a patinar en la cubierta, sin respetar el sueño de los otros pasajeros. Nadie quería acostarse. Cuando por fin Irma se retiró a su camarote, leyó por primera vez las líneas de su propia mano y descubrió, atenuado, el mismo signo que había visto en las manos ajenas. Comprendió oscuramente qué iba a suceder. Había que esperar y callar, para no sembrar el pánico. Recordó el hundimiento del Titanic. Pasó días ansiosos hasta que volvió a ser feliz, por el mero hecho de estar embarcada.

Todas las noches, en el barco, pasaban films en la sala de música. Irma no perdía una función. Una noche anunciaron en el menú, en letras rojas, El hundimiento del Titanic. Mucha gente comentó que ese no era un film para ofrecer a los pasajeros de un barco. Hacían falta temas alegres, de aventuras o de amor, y no dar la idea del peligro, que pone una nota triste en el ánimo de los viajeros. A Irma se le apretó el corazón, pero quiso ver de nuevo el film, que había visto antes de embarcarse. Ahora llegó a distraerse hasta el punto de olvidar que estaba ya embarcada. En el momento en que aparece el hermoso caballo de madera, de la sala de juguetes del Titanic, sintió que el barco daba un tumbo, que la alarmó un poco; pero siguió mirando, porque las imágenes la fascinaban. Cuando la vajilla del comedor del Titanic se amontona en un estruendoso caos y el agua entra por todos los resquicios, crujió el barco y otro tumbo brusco lo ladeó. Algunas sillas cayeron. Creyó, en su ilusión, que estaba en el barco de la película y que habían chocado contra un témpano. Fue como un relámpago. Del hundimiento del Titanic, pasó al real hundimiento del barco, sin saber cómo se había operado el cambio. Después (en un después que no recordaba con precisión, pues parecía parte de un sueño), perdió el conocimiento junto a los botes de salvataje y alguien la recogió por uno de esos milagros que revelan, según dijo, la existencia de Dios.»

Silvina Ocampo, «La divina» en Cuentos Completos, volumen 2. Buenos Aires: Emecé, 1999.

viernes, 14 de septiembre de 2018

El fondín de la alegría, de Alberto Vacarezza (1931)




«Cuadro primero
(Trastienda de una característica fonda genovesa en la Ribera. A la derecha, primer término, una puerta que comunica a un reservado, y más atrás una ancha abertura de arco, que da al comedor general. A la izquierda, una puerta que conduce a las habitaciones privadas y, en segundo término, otra que lleva a la cocina. Al costado de ésta, una pequeña ventana con pasadero para los platos. Mostrador y estantería a la izquierda. A foro la puerta de calle con dos vidrieras bajas y cuadrilongas a través de las cuales se ve el panorama del Riachuelo. A la hora de la cena. Aparecen: Roncoroni, el tarta, Pan seco y un par de amigos más, en la mesa de primer término derecha, tomando el vermouth. Roncoroni cuenta sus aventuras, por lo bajo, requiriendo de vez en cuando la confirmación de El Tarta, quien no lo desmiente nunca. El Carbunin y El Botero, en otra mesa de la izquierda, segundo término, jugando a la murra. Tres marineros y un estibador, juegan al truco, en otra de más atrás. Giacumin, detrás del mostrador, sirviéndole de beber al Cabo Ledesma, que, de pie junto al mostrador, observa el movimiento. Unos cuantos gringos en el comedor, cantan en coro los motivos de la clásica “Lingiera.”)
Los gringos.– “E cun la chica in buca
                             zapatille in man”.
Carbunin. – ¡Dúe!
El Botero. – ¡Tre!
Carbunin. – ¡Cincue!
El Botero. – ¡Sete!
Los gringos. – “La póbera lingiera
                              la va per Tucumán”.
Carbunin. – (al perder la murra) ¡Vo shito veñite in pó de ben…. ti me é gañou inatra vota! ¿A vede in pó Giacumin…? ¿Cuantu le cuesta rota qui?
Giacumin. – (Sacando la cuenta con lso dedos.) Tangue, tangue e tangue: Sun tantu cume in pesu e vinte.
Carbunin. – In pesu e vinte. (Paga.) Te doi due pesi e dame otanta de vortu.
Giacumin. – ¿A prupinha? (Imperativo.)
Carbunin. – ¿A prupinha? ta daió inta squenha, tocu de in palenadrún. Se ti vheu di diné vani a trabagiá intu carbón cume trabagiu mí. (mutis con El Botero al comedor.)
Giacumin. – ¿Mí in tu carún? ¡Ma lascieve de storie e andéibela a pigiá in tas taca!... (El Cabo se retira sin pagar.)
Pan Seco. – (A Roncoroni.) ¿Y de ahí, compadre: en qué acabó el incidente?
Roncoroni. – (Habla siempre con mucho énfasis y mirando con gesto despectivo.) ¿Y en qué iba a acabar? En cuanto la lora me embrocó como pidiendo socorro, ahí nomás pelé el de pinchar matambre, dejé el tendal de contusos y salí con ella pal lao de la toldería.
Pan Seco. – ¿Y…?
Roncoroni. – Le pasé la esponja al pizarrón, y como si nada hubiera escrito el profesor, enfundé la de seis hilos, y aquí me largué pa saber si es cierto lo que se dice: que a esa flor no hay quién la riegue ni la piante del rosal… ¿Es así como te dije?
El Tarta. – Así es como vos dijiste….
Pan Seco. – ¿Y no le parece que ya son muchos golosos pa una algarroba?
Roncoroni. – ¿Muchos? …. ¿Y ande están que no los veo?.... ¡Che, mameluco!...
Giacumin. –¡Zás! Ya se comunicó conmigo. (Se aproxima a la mesa de mal aire.) ¿Qué quiere?
Roncoroni. – ¡Cuánto es lo que se debe aquí?
Giacumin. – ¿Todo?
Roncoroni. – ¡Todo!
Giacumin. – (Saca la cuenta con los dedos.) ¡Tangue, tangue, tangue: cuatro noventa!
Roncoroni. – ¿Cuánto?
Giacumin. – ¡Cuatro noventa! Cinco pesos menos diez centavos.
Roncoroni. – ¡Muy bien! Andá cargándomelos a la respectiva adición que se ha de pagar por tesorería.
Giacumin. –¿Por dunde?
Roncoroni. – Por tesorería, he dicho. ¡Y no me sigás secnado porque en una de estas te voy a desparramar el aserrín del mate!
Giacumin. – ¿A quién?
Roncoroni. – ¡A vos!
Giacumin. – ¿A mí?
Roncoroni. – ¡A vos he dicho!... (Amenazante.)
Giacumin. – Bueno, está bien… ¡Pero no vaya a sacar el cuchillo porque me asusto!...
Roncoroni. – ¡Yo te voy a dar calesita pa que me sigás mariando!....»

Alberto Vacarezza, El fondín de la alegría. La Escena. Revista Teatral, N° 668, Buenos Aires, 16 de abril de 1931.



miércoles, 12 de septiembre de 2018

Discurso de Bartolomé Mitre (1870)




«Los agricultores de Lombardía, del Piamonte y de Nápoles, los más hábiles y laboriosos de Europa, han sembrado los cereales y hortalizas y realizado esos oasis de trigo que rompen la monotonía de la inculta pampa. Sin ellos no tendríamos legumbres ni conoceríamos las cebollas y las papas, puesto que en materia de agricultura estaríamos en las mismas condiciones que los pueblos más atrasados de la tierra. Los 80.000 italianos que pueblan nuestro suelo, en Buenos Aires y esparcidos en las diversas ciudades del litoral y el interior, han formado sus hogares uniéndose a las familias del país, fecundando la tierra nuestra.»

Discurso de Bartolomé Mitre en el Senado, 1870. Citado en Argentina, La otra patria de los italianos. Argentina, l’altra patria degli italiani. Buenos Aires, Manrique Zago ediciones, 1983.

Tipos y costumbres bonaerenses, de Aníbal Latino (1886)





«Y á propósito de tu silencio, ¿en qué consiste que muchos de los que van al Nuevo Mundo prometen escribir en seguida, y se pasan después años enteros sin enviar una línea, á veces ni á sus familias? Porque lo que yo te reprocho, he oído que otros han tenido que reprocharlo antes que yo á parientes y amigos. Sé que estás bien, que has hecho dinero en el comercio y que por añadidura te has casado con una hija de ese país: ¿Te ha costado mucho trabajo el hacer ese dinero? ¿Cómo has podido trocar tu afición por las poesías de Petrarca, de Giusti, de Parini, de Monti, de Leopardi, y tu admiración por la prosa de Manzoni, tu manía de borronear el papel haciendo malos sonetos, –discúlpame la franqueza,– con las estadísticas de los precios, los plazos fatales de las letras de cambio, las engorrosas prácticas de las contrataciones y los actos é incidentes prosaicos de las operaciones comerciales? ¿No hay medios de hacer valer por allí la inteligencia? ¿Ó es que en el comercio es más fácil engañar á los naturales, que desde luego supongo más torpes que nosotros? ¿Es la América como la pintan? ¿Es verdad que por allí corren los miles como por aquí los centenes, que hay tantas riquezas inexplotadas que aprovechar, tantos negocios lucrosos que emprender, tantos medios de hacer fortuna en un dos por tres? Háblame claro sobre esto, que ya sabes la confusión que aquí reina en todo lo que se refiere á esos países, no obstante las muchas publicaciones hechas, y los muchos italianos que allí han estado, y que van y vienen con mucha frecuencia. Corren muchas mentiras por el mundo y no soy amigo de tragarme las mayores.
¿Que hacen, de que viven, á que se dedican tantos italianos como hay en ese país? ¿Que concepto merecen á los naturales? ¿Hay periódicos italianos? ¿Son buenos ó malos? A la verdad que es cosa que pica mi curiosidad, saber como pueden entenderse, combinarse, armonizarse gentes de tantas nacionalidades y tan diversas lenguas, orígenes, costumbres, manera de vivir y pensar. Debe ser un espectáculo grandioso ver cómo allí hay lugar para todos y muchos más, mientras por aquí todos sobramos y nos comemos unos á otros.»

Aníbal Latino, Tipos y costumbres bonaerenses. Buenos Aires: Imprenta y Librería de Mayo, 1886.

Y ellos se fueron, de Viviana Rivero (2018)




«Cuando Diego y Esperanza llegaron a Europa se instalaron cuatro meses en Italia.
Él, movido por la ilusión de convertirse en un gran artista y de exponer allí, se consagró a la pintura y al dibujo con el maestro Verdi. Se había propuesto exigirse al máximo para cumplir sus sueños y consagrarse como un gran pintor.
Esperanza destinó ese tiempo a perfeccionar sus idiomas italiano e inglés bajo la guía y el cuidado de una institutriz sajona recomendada por la ya legendaria Miss Ellis. A la mujer se le había otorgado, durante el viaje, la tarea de decidir lo que se le permitía a la joven y lo que no; en nombre de esa autoridad, en Roma, a pesar de los ruegos y súplicas de la muchacha, no se le consintió tomar clases de declamación. Las visitas de Esperanza al teatro y a la ópera la habían conmovido; y su carácter extrovertido no tardó en elegir ese arte como su preferido. Pero la negativa fue rotunda: era una actividad no muy bien vista para una chica de buena familia; y sus ímpetus teatrales debieron ser relegados.
Aun así, a pesar de la frustración de no poder estudiar actuación, la aventura de la estada para Esperanza y también para Diego, significó nuevas y múltiples experiencias.
Roma, Florencia, y Venecia se abrían en un abanico de innumerables posibilidades: clases de idiomas, para ella; visitas a museos, iglesias y exposiciones, para Diego, acompañadas de largas horas de dibujo. Y apara ambos reuniones, salidas y cenas con la alta sociedad europea. En las que no faltaban señoritas interesadas en Diego, ahora que era el hijo de uno de los bodegueros más importantes del país. Porque en Europa, dado el progreso de Argentina, el dicho popular para referirse a quien tenía mucho dinero era: “Rico como un argentino”.»

Viviana Rivero, Y ellos se fueron. Buenos Aires: Booket, 2018.

Salero criollo, de José S. Álvarez (Fray Mocho) (1920)





«Hoy abrió el Ateneo su salón de pinturas. No puedo decirle nada todavía porque no me han dejado entrar ni a mí ni a ninguno de los que comemos en la “Cantina dil 20 di Settembro”. “La apertura, nos han dicho invariablemente, no es para el público grueso” y como nosotros formamos parte de éste, hemos comprendido la indirecta.
Yo, como aficionado, he visitado algunas casas de amigos pintores cuyas telas han sido rechazadas, razón por la cual, el estado de su ánimo no puedo decirle, ni mentir, que se placentero.
Don Antonio Pignatelli, conocido carbonero de la parroquia de Balvanera y hombre que es una notabilidad como preparador de tallarines y poseedor de vinitos italianos, –según puede atestiguarlo el señor comisario Temístocles obligado, el señor Fanor Ortiz, el que subscribe, el ex cura párroco de Santo Calamucciogargantano, Hermógenes Pircanchiculli, el poeta don Antonio Lamberti y otros sabios en la materia, –está con razón indignatísimo con el proceder del Ateneo.
Figúrese usted, para darse cuenta del disgusto de tan meritorio amigo, que él tiene un sobrinito que se llama Gaetano, criollo, y a quien, notando que le gustaba el dibujo, –pues cuando era chico no dejaba pared en la parroquia que no tomara por lienzo, habiendo merecido por esta razón más de cuatro pescozones y tirones de oreja, –no trepidó en dedicarle al bello arte.»

José S. Álvarez (Fray Mocho), Salero criollo. Buenos Aires: La cultura argentina, 1920.

Casita robada, de María Josefina Cerutti (2016)





«Una escopeta le cruza el pecho. Lleva boina ladeada, camiseta, pantalón de trabajo y alpargatas. Transpira y camina, de una punta a la otra del portón verde inglés. Es febrero de 1944, un napolitano recién llegado cumple la orden de mi abuelo Victorio. Nadie más que él, su mujer y sus hijos pueden entrar en la Casa Grande. La casona de Viamonte 5329, en Chacras de Coria, Mendoza.
“La desgraciada situación en que se han colocado los herederos impugnándose mutuamente hechos graves e infringiéndose agravios” obligó al juez de la sucesión de Manuel Cerutti a designar un administrador que no perteneciera a la familia porque “con sus luchas y pasiones desatadas los herederos han perdido toda la noción de la medida y de la serenidad”.
El padre de Victorio, que había muerto en septiembre de 1943, dejaba una montaña de bienes para repartir: la Casa Grande era la joya de su sueño americano. “Casi treinta años de pleito”, decían en la familia. Expediente de cinco cuerpos; 1.114 fojas de agravios, amenazas y citaciones. Más alguna que otra causa penal.»

María Josefina Cerutti, Casita robada. El secuestro, la desaparición y el saqueo millonario que el almirante Massera cometió contra la familia Cerutti. Buenos Aires: Sudamericana, 2016.

Los sorrentinos, de Virginia Higa (2018)





«El Chiche Vespolini era el menor de cinco hermanos, dos varones y dos mujeres. Su verdadero nombre era Argentino, pero le decían así porque de chico era tan lindo y simpático que se había convertido en “el chiche de sus hermanas”. Los Vespolini se habían instalado en Mar del Plata a principios de 1900 y siempre habían tenido hoteles y restaurantes. De su familia el chiche había heredado la Trattoria Napolitana: el primer restaurante en el mundo en servir sorrentinos.
Los sorrentinos eran una pasta redonda, rellena, que había inventado Umberto, el hermano mayor del Chiche, bautizada en homenaje a la ciudad de sus padres. El sorrentino no tenía el borde de masa de los pansotti, ni el relleno de carne de los agnolotti, ni llevaba ricota como los cappelletti. Era una media esfera con cuerpo, hecha con una masa secreta, suave como una nube, rellena de queso y jamón.
De vez en cuando aparecía alguien en la trattoria que tenía el mal gusto de preguntar, con cierto aire superado: “¿El sorrentino no es lo mismo que un raviol pero redondo?”. Ante esto, las mujeres de la familia ponían los ojos en blanco y los hombres se reclinaban en sus sillas y resoplaban.»

Virginia Higa, Los sorrentinos. Buenos Aires: Sigilo, 2018.

La luna, de Stella Cinzone (2004)





«Cosas por el estilo solía contarle ella a la niña en ocasiones, cuando muy de vez en cuando se daba la oportunidad de hablar de Italia, cuando en general solía agregar lo del hambre y el frío ya en la tierra extraña. El disgusto por la polenta sola, seca y desabrida como único alimento a la mañana, a la tarde y a la noche. Se hacía en grandes fuentes –contaba– dura y cuadrada, se cortaba con hilos en cuadrículas y cada uno sacaba un trozo a su turno. El día de suerte, si las vacas habían comido suficiente, había leche para acompañar, pero el día que no había polenta se comían unos porotos duros y pequeños que eran para ella peor que la polenta. Fue malo lo de Italia, sólo para sufrir. Era mala esa tierra y poca para el ganado, lo que se criaba no alcanzaba para nada y encima el frío podía matarlo. Terminaron cuidando a las vacas más que a sí mismos.
Ella y las hermanas debieron trabajar el campo helado, la tierra congelada que agrietaba las manos y endurecía los pies a través del calzado precario. Los hermanos varones eran pequeños para trabajar así que los padres decidieron mandarlos a la escuela.»

Stella Cinzone, La luna. Buenos Aires: Emecé, 2004.