lunes, 11 de noviembre de 2013

Mujeres entre Italia y el Río de la Plata, por Rosa Maria Grillo



Storie di donne tra Italia e Rio de la Plata[1]

Rosa Maria Grillo[2]


Nell’emigrazione italiana storica, tra il 1850 e il 1950, il discorso era tutto al maschile, e al femminile al massimo si parlava di penosi itinerari di ricongiungimento o di vedove bianche, sospese nel vecchio mondo nell’attesa di una lettera, di una notizia, di una rimessa: nella società patriarcale dell’Italia di allora la donna, soprattutto delle classi meno agiate, non aveva alcuna autonomia né possibilità di produrre, se non la prole e i servizi connessi alla casa e alla piccola agricoltura. Fuori delle mura domestiche non avrebbe potuto svolgere nessun ruolo e anzi sarebbe stata di intralcio nelle storie di uomini dell’emigrazione. La letteratura, naturalmente, attinge a questa realtà: “il topos della nostalgia –diventato lo stereotipo più invasivo nell’immaginario letterario emigrazionistico– è quasi esclusivamente legato alle figure maschili, mentre su quelle femminili, costrette nella condizione dell’attesa e dell’abbandono nella terra d’origine, si riversa la dimensione antropologica dell’emigrazione come malattia, follia, morte, così come essa è vissuta nella civiltà contadina tradizionale” (Martelli 451). Topoi questi che vengono giustamente rievocati da chi, come Laura Pariani, racconta oggi di antiche emigrazioni, e parla di “rabbiose penelopi” (Pariani. Quando Dio ballava….: 294): “Además es la ley: los hombres se van y las mujeres se quedan” (Pariani. Dio non ama…: 72).
Mai protagoniste, sempre prototipi dell’attesa e del sacrificio, non si sono mai nemmeno raccontate, il che non stupisce se ricordiamo che lo scrivere di sé presuppone non solo capacità manuale di scrittura ma anche la coscienza di sé, del proprio ruolo e della unicità della propria esperienza, cioè quegli elementi che hanno permesso la nascita della autobiografia moderna ad opera dei primi spiriti imprenditoriali e dei primi self-made-men. Quindi anche la scrittura migrazionista dal basso è stata di chiara matrice maschile, e ha prodotto opere che al valore di testimonianza storico-sociale spesso sommano valori che oggi riconosciamo come letterari –il pathos, la genuinità e vivacità di descrizioni e sentimenti, quella particolare scrittura straniata di chi si avvicina al nuovo con occhi vergini e ansiosi di capire– e che giustificano tanti riconoscimenti ufficiali (a partire da Merica Merica di Margariti, finalista nel 1979 al Premio Viareggio) e tanti studi e analisi di tipo letterario (nell’Archivio Diaristico di Pieve di Santo Stefano l’emigrazione è uno dei temi centrali della scrittura dal basso).
Col tempo sembrava calato l’interesse storiografico e letterario per l’emigrazione italiana, ma alcuni eventi indirettamente collegati hanno provocato una nuova ondata di pubblicazioni, sia creative che saggistiche: il ritorno in Italia da quei paesi dell’America latina verso cui si erano diretti un secolo fa tanti nostri connazionali, i problemi socio-politici che hanno vissuto e vivono quei paesi, destabilizzazioni che non solo spingono verso nuove emigrazioni ma che ripresentano l’eterna domanda, più che mai attuale: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo….
La grottesca risposta che per decenni hanno dato i rioplatensi per rivendicare la propria ascendenza europea –descendemos de los barcos– non è più sufficiente, e quelle navi oggi fin troppo spesso percorrono il cammino inverso, in un incredibile quando non grottesco gioco di specchi e di rimandi, di patrie e lingue ereditate, conquistate, perdute, sognate o inventate, rimosse nell’oblio o sedimentate nella memoria. Queste esperienze migratorie contemporanee sono molto diversificate così come i prodotti letterari che le raccontano; noi critici cerchiamo nei cenni biografici, nei testi autobiografici e creativi, sentimenti, avvenimenti, topoi che confermino le nostre conoscenze e le nostre idee della storia e della geografia umana, ma spesso non troviamo risposta, perché tempi e modi dell’emigrazione sono notevolmente cambiati rispetto all’emigrazione classica tendenzialmente unidirezionale. In questa situazione il femminile acquista enorme rilevanza, sia sul versante tematico –storie di donne– sia su quello autoriale –donne scrittrici. Infatti, all’indiscussa visibilità attuale della donna si assomma probabilmente un residuo del suo ruolo conservativo all’interno della famiglia: ricordi, diari, epistolari familiari gelosamente custoditi spesso forniscono non solo il contenuto di molti testi autobiografici femminili, ma ne costituiscono l’ossatura e permettono interessanti intrecci metaletterari.
La mia indagine tenterà di tracciare una mappa dei possibili percorsi al femminile tra l’Italia e il Río de la Plata, delle tracce lasciate tra testimonianza socio-antropologica e creazione letteraria, tra evento collettivo ed esperienza individuale. Ho lasciato da parte nomi ormai classici –l’uruguayana Marosa di Giorgio, le argentine Syria Poletti e Griselda Gambaro– e le colleghe e amiche Rosalba Campra e Marta Canfield, per concentrarmi su quelle autrici che abbiano percorso in uno dei possibili sensi di marcia –o in entrambi– questo itinerario nell’ultimo quarto di secolo, soffermandomi, come nuclei significanti, sulle scelte linguistiche e sulla presenza o meno di quei topoi che hanno caratterizzato la letteratura d’emigrazione storica: il viaggio di andata e ritorno di Laura Pariani e Aurelia Iurilli, l’esilio in Italia di Candelaria Romero, l’emigrazione in Argentina di Gigliola Zecchin, il ritorno alle origini italiane di Lidia Amalia Palazzolo e Ana Laura Lissardy.
Un dato è certo: non è possibile individuare nessun automatismo tra modalità e senso dello spostamento e scelte di scrittura. Cioè rispetto alla scrittura dell’emigrazione storica in cui il racconto autobiografico era fondamentale, sia come affermazione di un avvenuto riscatto economico e sociale (autobiografia classica del self made man) sia come autoanalisi e ricucitura della frattura del distacco, ora i temi dell’area semantica dell’emigrazione (distacco, viaggio, nostalgia, radici ecc.) sono generalmente frammentari e dislocati, metaforizzati e inglobati in discorsi  più ampi.
L’unica eccezione sembra essere Lidia Amalia Palazzolo[3], presente –insieme a Candelaria Romero–  nella antologia di poesia migrante in italiano Ai confini del verso[4].  Il suo è un ritorno alle origini, essendo nata a Buenos Aires da genitori italiani e arrivata in Italia in esilio nel 1987, ma questa doppia appartenenza diventa in lei sentimento di dislocazione, di perdita di radicamento e di identità, presente tanto in poesia che in prosa. Il suo racconto “La morte vi ha colto stranieri” è una sofferta confessione proprio di questo doppio straniamento:

Tante strade per arrivare fin qua. Tutta Sudamerica prima fingendomi italiana, sfoggiando un passaporto che diceva che ero, sì, italiana ma nata altrove. Un lungo percorso alla ricerca di un'identità mai chiarita. Pensando di trovarla in mezzo agli indios del Guatemala, alle foreste del Perù, alle rovine degli Incas. Per due lunghi anni girovagando con lavori di fortuna, con una specie di angelo custode malmesso che mi proteggeva stanco, per niente soddisfatto del compito impossibile di seguirmi senza destinazione. Tutto un viaggio sfuggendo, più che andando verso. Poi la resa. Fingendo di essere italiana in Italia (Palazzolo web1).

Dramma individuale che si intreccia con la drammatica storia familiare, di altre sconfitte e viaggi di sola andata, con un grottesco, quasi ilare se non fosse per la drammaticità del caso, ultimo viaggio delle ceneri della madre verso il paese natio. Nella poesia il discorso si fa più sfumato, si intimizza e nello stesso tempo si generalizza, diventa parola condivisa, basata sulla difficoltà del dire e del raccontarsi, difficoltà accentuata probabilmente dalla scelta di scrivere esclusivamente in italiano. Come nella poesia Lingua: “Lingua / tradita abbandonata / confusa […] / Tana equivoca / Ferita impossibile / Abbagliante / meccanica / Lingua / rimossa / che torna / stanca / e vorace / subdola / nel ricordo / miserevole” (Palazzolo. Ai confini…: 158). La Lingua “impastata / immemore / un buco desolato / una landa / sterile / infeconda / Muta” (Palazzolo web2) ritorna in diverse composizioni in una rivisitazione densamente descrittiva della condizione dell’emigrato. Lo stesso procedimento di essiccazione/enumerazione è applicato ad altri oggetti meno scontati, come i piedi: “Resistenti / Ai traslochi / Agli addii / Piedi / Memori / Segnati / Da scarpe / Povere / Ma dignitosi / Liberi piedi / per strade / senza ritorno / Perseveranti / ribelli” (Palazzolo web2).
Lo stesso viaggio di ritorno alle origini –il Friuli dei nonni materni– lo ha compiuto Ana Laura Lissardy[5] dall’Uruguay: qui la spinta al viaggio è di matrice economica e non politica, e la scelta della destinazione, senza dubbio, è condizionata fortemente dai legami ancestrali:

Quando ho pensato di studiare in Europa non ho avuto dubbi di venire in Italia, nel Friuli, perché mi sentivo di tornare alle radici. Era un modo di sentirmi più vicina ai miei nonni (morti molti anni fa). Loro hanno sempre vissuto con la nostalgia della loro terra e in qualche modo me la hanno trasmessa. Me la hanno trasmessa in tutti e due i sensi: voglia di venire in Italia, dove sono le radici, quando ero in Uruguay, e nostalgia della propria terra (l'Uruguay nel mio caso) stando lontano da casa (Lissardy. Lettera personale).

Questa doppia nostalgia conferma quanto scritto da Mario Benedetti a proposito dell’esilio e del desexilio: il ritorno non è mai possibile, il sentimento della nostalgia cambia di oggetto ma non si esaurisce, si è destinati ad essere spaesati –senza paese, alla lettera– per sempre. Ma questo disagio Ana Laura Lissardy lo esprime artisticamente solo in modo indiretto, con una scrittura frammentaria che di volta in volta si adegua al testo, al genere, al tema specifico. Scritto in spagnolo e pubblicato in Messico nel 2006, Amarillo è il suo unico romanzo, scritto in piena tempesta migratoria (iniziata nel 2001), ma fortemente radicato nella Montevideo di questo fine secolo, metropoli di per sé desarraigada e, diremmo, senza centro. Qui la frammentarietà è data da una molteplicità di focalizzazioni che la voce narrante gestisce magistralmente e con parsimonia di indizi, per cui solo la virata finale svela al lettore i sottili rapporti relazionali tra i personaggi che vagano appena riconoscibili nella nebbia dell’inconsistenza alla ricerca di una ragione, uno stimolo, un amore...:

Apretó la mano derecha con todas sus fuerzas, hasta que el puño tembló por la rigidez. Y entoces dio un golpe en el espejo con tanta furia que volaron restos plateados por toda la habitación. Era el retorno. La vuelta a sí mismo. Era reencontrarse, encontrarse por vez primera. Ser sólo su sangre y sus latidos. Era él sumergido en su torrente sanguíneo. Arrastrado por el río que corría en su interior [...] También era muerte. Extinción de esa mitad que había sabido ser durante tanto tiempo. Suicidio de lo que ya no volvería a ser, a no-ser [...] Ahora, sólo tenía que dejarse fluir [...] Por la inercia del movimiento, por la armonía del ir y venir con los demás, con las señales de uno y otro y uno y otro, como olas. Pájaros eternos dejándose jugar con el viento; siendo el viento que juega con ellos. Unicamente debía cortar los hilos y librarse de titiritero [...] Sintió como suya la risa de una mujer con un vaso de vino en la mano. Y gritó en el grito de uno que cantaba compenetrado. Y bailó en las piernas de otro que se movía poseído. Y respiró en el aire que entraba en una boca abierta. Y se dejó ir en la heroína que penetraba en un brazo, allá en el rincón. Era él siendo ellos. Era todo eso. Y amarillo.. Y tanto más (Lissardy. Amarillo: 73-82).

E finalmente, dopo aver toccato il fondo, colui che solo alla fine si rivela protagonista troverà la salvezza nella scrittura: “Soy Rafael [...] Acabo de terminarla. Setenta mil caracteres. Te la llevo esta tarde... Perfecto. Nos vemos, chau” (Lissardy. Amarillo: 83). Sarebbe fin troppo facile e banale vedere in questo vagare dei personaggi metafora della vicenda migratoria, ma nessun indizio lascia trapelare questa condizione. La stessa atmosfera si respira anche in un racconto, “Turn on”, scritto in italiano, reiterativo e ossessivo nella sua assenza di azione che condensa tutto un mondo, o tutti i mondi. Una giornata qualunque di un qualunque uomo in una qualunque città del mondo: in poche righe, sono sintetizzate tipicità e tipologie della normalità, una normalità che appare assurda appena ti sposti di qualche migliaio di km –poche ore di volo in un comodo aereo– da una metropoli anglosassone a una terzomondista o mediorientale. Sembra uno di quei racconti delle scuole di scrittura creativa, uno inizia e chi segue continua la stessa storia all’altro capo del mondo. Ma nulla è casuale, le azioni minimaliste che si susseguono uguali e sempre diverse esaltano la dimensione della diversità rinunciando a qualsiasi pretesa di globalità: anche qui, assenza totale di qualsiasi indizio di sentimento migrante o spaesamento, e viceversa coincidenza assoluta di essere e stare. La scelta della lingua, poi, appare collegata unicamente ai cronotopi della vita reale dell’autrice e alle esigenze di pubblicazione: l’italiano del racconto ha appena qualche inflessione straniata e straniante.
Continuando per lo stesso scacchiere transoceanico, troviamo i viaggi di sola andata, ma in senso contrario, di Candelaria Romero[6]  e Gigliola Zecchin de Duhalde.
La prima, esiliata ancora bambina in Svezia con i genitori, intellettuali argentini, approdata adulta in Italia dopo aver vissuto a lungo in Spagna, non ha dubbi sulla lingua da adottare –l’italiano della sua vita adulta-, anche se, segno dei tempi e di ciò che maldestramente chiamiamo postmoderno ma che per lei è scottante storia personale, sogna “di avere un giorno la forza di scrivere in una nuova lingua fatta di tutte queste sfaccettature: svedese, spagnolo, italiano, guarany (la lingua della […] bisnonna) e, perché no, anche inglese, la seconda lingua in Svezia” (Romero. Ai confini …: 167). Il suo doppio impegno militante di donna e di soggetto migrante è ampiamente documentato nel teatro, mentre in poesia il discorso assume una connotazione di pacificata armonia: in “Il tabaccaio” sembra indicare l’accettazione di una condizione sopranazionale che permette l’interiorizzazione di nuove patrie –quartiere, città, lingua– senza strappi e rifiuti: “Oggi le strade sono diventate mie” (Romero. Ai confini…: 168). Anche il suo femminismo non è lacerante, bensì rivendicativo di una peculiarità femminile naturale da perpetuare: alla epigrafe di Marcela Serrano (“Il nostro compito, il compito di noi donne, è quello di dare alla luce dei figli e di chiudere gli occhi a chi muore. Esattamente i due passi chiave dell’esistenza. Come se la storia in realtà dipendesse  dalle nostre mani”) fanno eco i suoi versi, che esaltano “quel grembo / che sanguina / perché il mondo / noi / lo carichiamo dentro” (Romero. Ai confini …: 172). Nel teatro invece la sua penna diventa militante: autrice di teatro ed attrice, ha scritto e messo in scena due monologhi che denunciano violenze e soprusi. Uno, Hijos, vincitore di premi e menzioni, di matrice autobiografica, è la storia di una famiglia di profughi, un periplo che inizia e finisce in Argentina con tappe in Bolivia, Svezia, Italia:

C’era una volta una bambina che fece tanti viaggi, tanti, tanti. Viaggiò. Viaggiò lontano, fino a dimenticare, fino ad allontanarsi. Diventò nulla, diventò tutto ciò che aveva visto. Diventò nulla di tutto ciò. Finché un giorno dovette fermarsi. Si fermò, e poi si sedette e poi raccontò. Raccontò e raccontò. Tutto ciò che aveva viaggiato, raccontò. Tutto e nulla raccontò… E così raccontando viaggiò, viaggiò ancora. Viaggiò. C’era una volta…  (Romero web).

Una favola per ragazzi, di forte impatto anche sugli adulti: parole chiave, ancora una volta, dimenticare/raccontare, viaggiare/fermarsi; raccontando la sua vita di esiliata denuncia insieme alla esperienza dell’esilio anche le condizioni di vita/non vita dell’Argentina della dittatura.
Ancora più impattante è Bambole, storie di donne giocate, usate, buttate. Lo spettacolo inizia con una musica travolgente; la scenografia prevede solo un bidone di spazzatura che campeggia al centro del palco e la proiezione di documentari che confermano la veridicità dei racconti. Da questo bidone esce la marionettista vestita di un sacco nero, donna spazzatura  in mezzo ad altra spazzatura, e dalla borsa inizia a estrarre bambole di pezza, di plastica, di carta, tutte piuttosto malconce, ognuna simbolo di una storia che Candelaria Romero racconta e interpreta: la bambina che si prepara per l'infibulazione, le detenute che vengono sistematicamente tosate per vendere i loro capelli, abusi contro le donne nelle carceri russe, la donna violentata più volte finché l'ultimo pietoso cliente le dona la morte avvelenandola, ecc. Ogni storia esce dal bidone per scuotere lo spettatore affinché prenda coscienza di quanto di spaventoso accade ancora oggi nel mondo.
Viaggio di sola andata, anch’esso subìto in età infantile, è anche quello di Gigliola Zecchin de Duhalde[7] il cui unico libro di poesia finora pubblicato ha significativamente un titolo italiano, Paese, perché “la scrittura è l’esercizio pieno della libertà. Scrivo in spagnolo, ma penso frequentemente a situazioni e frasi in italiano e mi ritrovo spesso a parlare tra me e me in italiano” (Zecchin de Duhalde web). Vi troviamo un equo dosaggio di referenzialità e temi intellettuali/sentimentali, legati all’essere donna, all’essere immigrata o semplicemente all’essere: da Adiós (“en el tono de su voz / un barco en movimento // huye de / una historia / de gente que ha dejado / cartas y fotografías / apretadas en las cajas de / los muertos // pasar miseria / puede ser atroz / para que se me entienda //en la maleta roja / lleva mi boca” (Zecchin de Duhalde. Poetesse d’Argentina: 12) a Espejismo (“el sudor de su propio mar /exaspera mi sed // dos desiertos / un solo lecho”, 18) a Puertas de polvo (“un soldato que va a la guerra / cien soldados que van a la guerra / cien mil soldados que van a la guerra // toque de queda // larga noche sin fuego / refugios // cruzan el umbral del sueño / los huérfanos / con los botines puestos // amanece // en el aire las aves / mecidas por lo incerto”, 32). Poesia a tutto tondo, quindi, dove l’emigrazione – el adiós, ma non el desarraigo – è solo uno dei temi trattati, anche se il titolo della raccolta, Paese, potrebbe far pensare a una monotematica invece inesistente.
Ancora simili e diversi sono i viaggi di andata e ritorno di  Laura Pariani[8] e Aurelia Iurilli.
Laura Pariani è un caso eccentrico, scrittrice di fama in Italia, pian piano è andata svelando dati biografici che illuminano il suo percorso: un periodo fondamentale di formazione vissuto in Argentina, che negli ultimi anni si è trasformato in una doppia appartenenza, in una doppia patria –vive parte dell’anno lì e parte qui, come quegli emigranti golondrinas che inseguivano il sole e il lavoro agricolo stagionale– esperienza che curiosamente non compare nelle note biografiche che accompagnano i suoi testi. Dico curiosamente perché in ogni suo testo vi è qualcosa dell’Argentina della sua giovinezza, e le tre opere espressamente autobiografiche girano intorno alla sua esperienza oltreoceano: il racconto “Lo spazio, il vento, la radio” (Il pettine), il romanzo La straduzione, sulla vita di Gombrowicz a Buenos Aires, i reportages di Patagonia Blues.
In “Lo spazio, il vento, la radio” è rispettato in pieno il patto autobiografico: l’io narrante è quello della Pariani che racconta il suo viaggio, appena quindicenne, in Patagonia sulle orme del nonno Luigi, anarchico partito da un paesino della Lombardia negli anni 20. Molti sono i topoi della emigrazione: la  nonna Caterina, vedova bianca che mantiene viva la memoria del marito americano che mai più tornerà in Italia, l’intrecciarsi di emigrazione politica ed economica, il viaggio deamicisiano alla ricerca del padre-nonno che diventa, per la ragazza quindicenne, viaggio di formazione e di confronto con l’altro. Un viaggio e un’esperienza che non si esauriscono con il ritorno in patria, ma diventano tasselli importanti nel progetto di vita che la porterà a partecipare attivamente alla contestazione sessantottesca, forse rivendicando la genealogia anarchica del nonno, e più tardi a scegliere l’Argentina come seconda patria. Questo suo viaggio giovanile costituirà sempre la cartina di tornasole, lo specchio in cui si rifletteranno non solo i suoi successivi ritorni nel paese rioplatense ma anche l’esperienza argentina di Gombrowicz.
La ricostruzione degli anni argentini dell’artista polacco maschera infatti la ricerca della propria argentinità, e le diverse realtà ed esperienze si fondono in uno stesso sentimento di estraneità che è anche, e contraddittoriamente, amore per l’Argentina. Ragioni intellettuali e ragioni del cuore coesistono e si amalgamano, fino a trasporsi dall’una all’altra esperienza in un continuum, come dicevamo, di estraneità e amore: la Buenos Aires del 1939 di Gombrowicz, quella della Pariani del 1966 e del 2000 (“Non faccio fatica a figurarmi il quartiere ai suoi tempi”, Pariani. La straduzione: 138); la stessa ragazzina inquieta (“E intanto la ragazzina del 66 che è ancora in me si è messa a pensare in castellano quasi con naturalezza: una me stessa addormentata nel bosco che si risveglia ogni volta che arrivo in questo quartiere”, 21), la stessa nostalgia autunnale  (“memorie vicine e lontane mi si mescolano davanti alla finestra di calle Venezuela, in un pomeriggio di pioggia con una qualità di luce già quasi autunnale…”, 99). D’altra parte la Pariani si apre al lettore indicandogli esattamente questa chiave di lettura, a cui generosamente andrà aggiungendo indizi e spiegazioni, sia nel testo che nel paratesto (nel corpo del romanzo inserisce pagine in corsivo, lettere al “figlio Luca che mai ha visto Buenos Aires” a cui tenta di trasmettere le sue sensazioni). Infatti, se un difetto ha questo testo struggente e lucido, è proprio l’aver dipanato in apertura, nella dedica al figlio, il motivo e i motivi della scrittura: “Sto recuperando il tempo perduto […] È vero: sono tornata a Buenos Aires a cercare il luogo di certe ferite antiche, a convocare i miei spettri […] anch’io, come Gombrowicz, giunsi in nave in questa stessa città, senza sapere che avrebbe cambiato la mia vita” (Pariani. La straduzione: 8). Non poteva mancare naturalmente un riferimento al viaggio del 1966 alla ricerca del nonno, sperduto tra i deserti di Neuquén, viaggio ripetuto nel 2000 a cui dedica un paio di scarne ma sentite paginette, primo embrione di quello che sarà Patagonia Blues. Dopo tanti approcci trasversali, indiretti, era inevitabile un Omaggio alla Patagonia, un testo giornalistico e referenziale ma così fortemente sentito e vissuto, che fa da pendant ai testi creativi, così densi di realtà. Va di moda la Patagonia, dopo tanti viaggiatori, criminali, eccentrici e solitari, Chatwin, Coloane, Theroux, Sepulveda, Soriano, Caillois, ma per la Pariani è prima di tutto un pezzo di vita propria, con cui, sin dal primo racconto, ha intessuto un sottile gioco di fioretto, di allunghi e indietreggiamenti: ora si confrontano apertamente la paura dell’ignoto della ragazzina inesperta e la sapienza della scrittrice ora esperta di quelle terre e dei personaggi che incontrerà –rincontrerà– a ogni sosta. Sono tali l’empatia e il processo epifanico che la Pariani mette in moto in questi incontri che si instaura la stessa reazione nell’altro: tutti sembrano riconoscerla come l’atteso anello di congiunzione tra sé e il mondo, come la destinataria ideale delle loro storie, che sono anche storie dello sterminio indio in quella terra tragica e della magia di una cultura che resiste e vuole raccontarsi.
Nel percorso narrativo della Pariani  si può intravedere proprio quel passaggio della figura della donna dal ruolo di Penelope passiva e in attesa a quello di Ulisse attivo e migrante. Dalla nonna vedova bianca del nonno anarchicopresente come personaggio fittizio in Quando Dio ballava il tango (“Dalgìsa […] il viso rigido senza lagrime di sfogo, la voce monotona, gli occhi persi in una lontananza incomprensibile, il vestito nero di un lutto eterno […] lacerata dal crepacuore, vagando per la casa o seduta davanti a questo stesso camino a fissare il vuoto”, Pariani. Quando Dio…: 23-24) si è passati all’autrice stessa, che dopo quel primo viaggio iniziatico in Patagonia insieme alla madre, ha ripercorso più volte quel tragitto, nuova golondrina alla ricerca di radici, di verità, di affetti, e che si rispecchia nel personaggio di Corazón, pronipote di Dalgìsa, cresciuta in Argentina che, dopo la desaparición del suo compagno, torna in Italia e va a trovare la nonna:

Corazón comprende benissimo le parole della vecchia; perché, come tutti coloro che son nati in Argentina, la sa lunga sia sulla nostalgia sia sui sotterfugi a cui  questo sentimento costringe; tra l’altro, se è arrivata qui, è proprio perché ha bisogno di tornare indietro, ché il suo viaggio è una fuga nel passato. L’ultimo rifugio per i perseguitati è la lingua materna […] E questa cascina nella valle del Ticino è la terra della memoria (Pariani. Quando Dio…: 20).

Forse in Laura Pariani si dà il giusto dosaggio di partecipazione ed estraneità per poter scrivere i grandi romanzi sull’emigrazione che erano mancati nella letteratura italiana dell’800. Anche l’idioletto rispecchia la volontà di dare un’immagine globale del fenomeno migratorio, anche se l’inserimento di parole e frasi in spagnolo nell’italiano leggermente colorito di dialetto lombardo non sempre risponde a un’unica esigenza artistico-comunicativa ma a volte sembra una semplice diversione. Non mancano comunque intuizioni ardite e convincenti: il neologismo straduzione rimanda a quel campo semantico della deprivazione, della lacerazione, dell’incompiutezza e si può aggiungere a un’infinita lista di termini possibili, anche se non entrati nell’uso comune, come il dispatrio, la disperanza  ecc.. Infatti se fino ad ora la lingua italiana ha avuto un lessico ristretto nel campo semantico del distacco dalla patria (si pensi invece alla lingua spagnola: exilio, destierro, transtierro, insilio, desexilio ecc.) forse la storia recente ci obbligherà a indicare con parole nuove questi nuovi percorsi accidentati di esili e ritorni, di emigrazioni e ritorni, di appartenenza e/o estraneità a più mondi.
L’altro caso di viaggio di andata e ritorno è quello di Aurelia Rosa Iurilli[9] per la quale i concetti di
linguamadre e lingua2 sono problematici: i percorsi linguistici e tematici appaiono più viscerali che razionali, piccole e rarefatte incursioni in cui si percepisce un ibridismo non solo linguistico –a volte un vero cocoliche– ma esistenziale e di focalizzazione. Se vogliamo proporre un parallelismo con la Pariani, potremmo dire che quest’ultima proprio attraverso i libri che abbiamo esaminato ha gettato sul tappeto il suo caso e vi si è continuamente e lucidamente confrontata[10], mentre per la Iurilli rimane un sostrato diffuso e indifferenziato, apparentemente senza crepe o crisi identitarie, ma pronto a creare confusione e incertezze. Un esempio ne è Della lingua ammaliatrice, pubblicato in Italia in un italiano maccheronico, anche se non privo di fascino, in cui studia quattro scrittrici argentine nate in Italia ma ne confonde scrittura e vita, creazione e realtà. Senza dubbio l’esito migliore, in cui la confusione si articola in con-fusione, sono due racconti, entrambi scritti in spagnolo, pubblicato uno in Argentina, l’altro in Italia, che con prosa ispirata e da realismo magico raccontano due sincretismi: il primo, “La historia invertida” (Tríptico en Pinamar, 1984) narra l’arrivo dell’esercito incaico nell’Italia rinascimentale, l’altro, “Leyenda spoletana” (Medievalia, 1992), la trasmutazione di Francesco d’Assisi nell’argentino fratello del sole Francesco Solano, quasi come se, tornando indietro nel tempo, fosse possibile ritrovare una unità non scissa, un mondo di dame e cavalieri lontani dal mundanal ruido della modernità.
Con queste analisi non vogliamo esaurire naturalmente il discorso su donna e emigrazione tra Italia e Rio de la Plata. Pensiamo solo di aver buttato un sassolino nello stagno della ricognizione storico-antropologica e letteraria dei percorsi e della scrittura al femminile tra Italia e Rio de la Plata. Con una sola certezza: aldilà di somiglianze e possibili discorsi generalizzanti, il fenomeno dell’emigrazione che in situazioni drammatiche diventa esilio e si confonde con ricerche, fughe, ritorni esistenziali, sfugge, ora più che mai, a studi statistici e omologanti, e la scrittura femminile a cavallo tra i due millenni non può che dar conto di tale varietà contraddittoria a volte ma sempre estremamente vitale. E una conferma: la desemigrazione non esiste, come riconosce la Corazón di Laura Pariani: “chi torna dopo un periodo di emigrazione non è mai chi è partito, anche se continua a chiamarsi con lo stesso nome di prima ché è solo questo a mantenersi costante, nient’altro” (Pariani. Quando Dio….: 15).
Nell’impossibilità di proporre una qualsivoglia conclusione, ci domandiamo, insieme all’arcangelo Atilio Correa, protagonista dell’ultimo romanzo  di Rosalba Campra, straniero in ogni luogo e in ogni tempo, “Chissà da che parte del fossato si trova[va] la patria” (Campra. Gli anni….:14).


Bibliografia citata
Campra, Rosalba. Gli anni dell’arcangelo. Roma: il Filo. 2007.
Iurilli, Aurelia Rosa. Tríptico en Pinamar. Buenos Aires: Botella al mar. 1984.
―. Medievalia. Verona: ed. dell’autore. 1992.

―. Della lingua ammaliatrice. Bari: Laterza. 1995.
Lissardy, Ana Laura Amarillo. Ciudad de México: Grupo Editorial Cenzontle. 2006.
Martelli, Sebastiano. “Oltre il silenzio oltre l’attesa: figure femminili nella letteratura italiana dell’emigrazione”. La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo. Il Novecento. Ed. R. Giglio e P. Sabatino. Napoli: Liguori. 2002: 451-469.
Palazzolo, Lidia Amalia. Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano. Ed.  Mia Lecomte. Firenze: Le Lettere. 2006: 155-160.
―. A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy. Los Angeles: Green Integer (in corso di stampa). 
―. Web1. “La morte vi ha colto stranieri”. http://www.meritoviaggi.com/racconti/
 ―. Web2. “Poesia”. El ghibli, 15 (marzo 2007).
Pariani, Laura. Il pettine. Palermo: Sellerio. 1995.
―. Quando Dio ballava il tango. Milano: BUR. 2004.
―. La straduzione.  Milano: Rizzoli. 2004.
―. Patagonia Blues. Milano: Effigie. 2006.
―. Dio non ama i bambini. Torino: Einaudi. 2007.
Romero, Candelaria. Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano. Ed.  Mia Lecomte. Firenze: Le Lettere. 2006: 167-173.
―. Hijos. Bambole. “El ghibli”.  10 (dic. 2005) (ed. digitale).
Zecchin de Duhalde, Gigliola. Veneti nel mondo, intervista sul web.
―. Poetesse d’Argentina. Ed. Antonio Melis. Napoli: Tullio Pironti. 2006: 8-39.

Note

[1] Versión reducida del artículo publicado en Oltreoceano, n.2, 2008, Univ. Di Udine, pp.95-106. Gentilmente concedido por la autora.
[2] Profesora de Literatura Hispanoamericana de la Università degli Studi di Salerno (Italia).
[3] Lidia Amalia Palazzolo è nata nel 1951 a Buenos Aires da genitori italiani. Laureata in antropologia, ha insegnato all'Università di Buenos Aires dal 1985 al 1987, anno in cui si è trasferita in Italia, in Trentino. Le sue poesie sono state pubblicate su riviste cartacee e online e in raccolte antologiche fra cui Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano e A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy. Con il racconto La morte vi ha colto stranieri è stata finalista 2006 al concorso gialloinviaggio, e vincitrice del premio nazionale "Popoli Migranti".
[4] Che l’Italia sia diventato un paese di immigrazione anche da quei luoghi dove fino a non molti decenni fa emigravamo noi stessi, è documentato dalla massiccia presenza di latinoamericani in questa antologia: su 20 presenze, ben sei sono latinoamericane (due sono voci femminili ed entrambe vengono dall’Argentina).
[5] Nata a Montevideo nel 1975, si è trasferita a Udine nel 2001 nella cui Università si è laureata in Lettere e Filosofia. Giornalista di professione, ha collaborato e collabora con riviste e giornali in Uruguay, Spagna, Colombia e Italia. Attualmente frequenta il Master in “Scrittura e produzione per la fiction  e il cinema”, presso la Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
[6] Nata nel 1973 a Tucumán, nel 1976 si è trasferita con la famiglia in Svezia. Ha studiato arte drammatica e scrittura creativa in Svezia, Danimarca e Spagna, dal 1992 risiede a Bergamo.
[7] Nata a Vicenza nel 1942, si trasferisce nel 1952 in Argentina, dove vive attualmente, con la madre rimasta vedova e sette fratelli. Giornalista, poeta e scrittrice per l’infanzia, conduce un programma sull’emigrazione, L'altra terra.
[8] Laura Pariani, laureata in Filosofia alla Statale di Milano, è nata a Busto Arsizio nel 1951, è cresciuta a Magnago e vive a Turbigo (MI), dove ha insegnato fino al 1998. Negli anni settanta ha disegnato e scritto storie a fumetti d’ispirazione femminista. Il suo esordio narrativo avviene nel 1993 con la raccolta di racconti Di corno o d’oro, con cui si aggiudica il Premio Grinzane Cavour. I suoi libri successivi, Il Pettine e La spada e la luna (1995), La Perfezione degli elastici (e del cinema) (1997), La signora dei porci (1999), Il paese delle vocali (2000), La foto di Orta (2001), Quando Dio ballava il tango (2002),  L’uovo di Gertrudina (2003),  Il paese dei sogni perduti. Anni e storie argentine e La straduzione (2004), Tango per una rosa (2005), Patagonia Blues (2006), Dio non ama i bambini (2007), ottengono un unanime consenso di critica ed importanti riconoscimenti.
[9] Nata a Ruvo di Puglia nel 1941, emigrata a Buenos Aires nel 1952, vi rimane fino al 1984, quando si trasferisce a Bari, dove vive tutt’ora. Ha pubblicato saggistica, poesia, teatro, narrativa, sia qui che lì, sia in spagnolo che in italiano, su tematiche medievali e religiose, sul classicismo in Manuel Mújica Láinez e su scrittrici italo-argentine.
[10] Come abbiamo detto a proposito del libro su Gombrowicz, forse finanche troppo didascalicamente, riducendo al minimo il non detto.

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