«L’addio
(Dal Corriere della Sera del 19
novembre 1901)
Da bordo del Venezuela,
12 ottobre.
Chi può udire senza commozione profonda il grido che si
leva da una nave carica d’emigranti, nel momento della partenza, quel grido al
quale risponde la motitudine assiepata sulle banchine, urlo disperato di mille
voci rauche di pianto? Gridano addio! E par che gridino aiuto!...
L’addio! Non c’è cosa più amara e più dolorosa. Tutta l’umana
sofferenza può essere espressa in questa parola: addio! In fondo ad ogni nostro
dolore possiamo trovare sempre un addio: a qualche cosa o qualcheduno.
Io non dimenticherò mai la triste partenza di questo
vapore che mi trasporta al di là dell’Atlantico; forse perchè anche io,
partendo, mi sento un po’ compagno agli emigranti che sono a bordo. E anche
perchè nella noia e nella sidillusione dei viaggi vi sono due grandi emozioni,
due sole, alle quali nessuno può sottrarsi: la partenza e il ritorno.
Quando si ode a bordo l’avvertimento: “Chi non è
passeggiero, a terra!” comincia un momento di strazio. Pare che soltanto allora
chi parte abbia nettamente il sentimento dell’irreparabile. Si direbbe che vi
fosse in ogni anima questo pensiero: potrei ancora non partire! Ciò dava
coraggio.
“Chi non è passeggiero, a terra!” –ripetono delle voci
indifferenti di marinai. Scoppiano i pianti fra la povera folla accampata sui
ponti; si annodano abbracci lunghi, violenti, disperati; le facce lacrimanti si
reclinano sulle spalle scosse dai singhiozzi; delle parole interrotte e
affannose s’intrecciano: Ricorda!... Scrivi!... Torna, torna!...
“A terra! A terra!” – ammoniscono crudelmente i marinai:
e cominica per la passerella la dolorosa processione di chi rimane. Non sono
molti. L’amaro conforto dei saluti non è per tutti. È una folla varia che si
dispone lungo la banchina, con le pallide facce attente alla nave, aspettando.
Vi è qualche cosa di funebre in questa attesa. Infatti la
partenza di un emigrante per un lontano paese ha un po’ della morte. Egli muore
alla sua vita consueta. Muore per i suoi, muore per il suo paese, sparisce verso
l’ignoto. Egli forse pensa vagamente ad un ritorno, è vero; la sua morte ha una
speranza di risurrezione. Ma nel momento del distacco il turbine del dolore
disperde ogni sogno. Egli ha l’occhio perduto e il viso desolato di chi si
trova di fornte all’abisso insondabile di un’altra vita. Questa morte è
peggiore della vera, dell’ultima, in ciò: che qui vi è la desolazione di chi
parte aggiunta alla desolazione di chi rimane. Questi due dolori di fronte,
dalla riva alla nave, si nutrono l’uno dell’altro fino alla disperazione.
Le anime legate d’affetto sono come specchi che si
mandino le immagini: ciò che vi passa dentro si riflette centuplicato all’infinito.
Tutti tacciono perchè tutti sentono che parlare sarebbe
piangere. Solo qualche voce mormora ogni tanto: coraggio! E dei singhiozzi
rispondono. Un emigrante arriva in ritardo, correndo, seguìto da una donna.
Hanno il volto acceso dalla corsa e tutto bagnato di lacrime. Sul limite dell’imbarcadero
si abbracciano strettamente, senza una parola, mentre i faccini pronti a
ritirare la passerella gridano: Presto! Poi l’uomo si svincola e si slancia a
bordo, come fuggendo. Lo segue lo sguardo desolato della donna che rimane
immobile, stordita. Nessuno bada a questa scena; il dolore rende egoisti, cioè crudeli;
i dolori degli altri sono spesso di conforto ai proprî.
*
* *
Nel silenzio si odono i comandi dall’alto della plancia:
i fischi dei segnali trillano degli ordini. Da tutto intorno viene intenso il
tuono della vita, il palpito della città indifferente. I tams elettrici fuggono
rombando lungo la via di circonvallazione e suonano allegremente le loro
campanelle. Il frastuono d’un treno in partenza si spegne nel tunnel che va a
sboccare nella luminosa San Pier d’Arena. un mondo di gente passa lontano senza
fermarsi, senza volgersi, inconsapevole dei mille drammi che ì a due passi
hanno nella partenza imminente un unico epilogo. Dalle colline scende il vento
fresco e porta gli ultimi profumi della terra. I giardini non sono mai stati
così verdi e belli, così crudelmente allettevoli. Il colossale Nettuno della
villa Doria, guarda dal folto degli alberi con profondo disdegno il suo regno
antico, il mare; pare che dica: Qui, qui si sta bene! Genova tutta sorride al
sole...
I preparativi fervono. Le grandi braccia lente delle gru
hanno posto nella stiva aperta le ultime casse. Erano bagagli d’emigranti,
poveri bauli di legno grezzo, cesti, vecchi cofani borchiati di ferro che
gemevano sotto la stretta delle funi. la passerella viene ritirata. Nulla è più
fra la terra e la nave. Si ode un comando. Gli argani di prua si mettono a
girare con frastuono: l’àncora sale, esce lentamente dal mare bagnata e
scintillante. Gli ormeggi si allentano. Sotto alla poppa l’acqua comincia a
ribollire, si forma un vortice da cui la spuma fugge in tumulto spandendosi
lontano: l’elica è in moto.
Gli emigranti si accalcano ai parapetti, si arrampicano
agli attacchi delle sartie, lottano per un posto, pallidi, silenziosi,
risoluti.
Il piroscafo si sposta: lentamente scorre lungo la
banchina. La folla muta lo segue passo passo facendo dei segni d’addio. Qualche
fazzoletto sale agli occhi, ma per poco; non c’è tempo di piangere, su vuol
vedere, vedere fino all’ultimo, vedere fino che è possibile: i momenti sono
preziosi. Gli occhi non si distolgono un istante dalla nave; occhi rassegnati e
dolenti, nei quali con l’espressione della sofferenza vi è tanta dolcezza d’implorazione.
Chi soffre rassegnato ha lo sguardo del vinto che domanda pietà, ed emana da
lui tutta la poesia della sconfitta. Una povera donna solleva sulla testa un
bambino che saluta con tutte e due le manine, ridendo.
Ad un tratto il vortice di spuma diventa tempestoso, l’elica
comincia a pulsare rapidamente facendo vibrare la nave tutta. La terra si
scosta, Allora delle voci si levano, dei pianti mal contenuti scoppiano. Poi,
improvvisamente, dai fianchi del piroscafo si sferra il grido disperato che
stringe il cuore, l’urlo che quasi non sembra più umano: Addio! E mille braccia
si tendono verso la terra e si agitano quasi nell’inane sforzo d’un ultimo
amplesso.
*
* *
Addio! risponde la folla già confusa sullo scalo. Sopra
di essa biancheggiano i fazzoletti agitati, e ogni fazzoletto è riconosciuto da
bordo come se fosse un volto, è seguìto fissamente, avidamente. Quel puntino
bianco che sfarfalleggia sulle teste ripete ancora una volta tutto quel mondo
di cose inesprimibili che le anime sanno dirsi quando il pianto rende muta la
bocca.
Ogni cosa sparisce lontano; gli uffici doganali e i docks del ponte Federico Guglielmo non
sembrano più che casette biancheggianti al sole. Si passa vicino ad una
nave-scuola, dalla quale arrivano le allegre battute d’una marcia militare; dei
ragazzi in uniforme marinaresca si affacciano al parapetto agitando i berretti.
Il nostro piroscafo silenzioso si allontana scivolando sull’acqua calma e
serena. Sopra un carboniere, dei marinai in catena eseguiscono una manovra, e
il loro canto lietamente si spande nella quiete del porto. Si gira il Molo
Vecchio, dietro al quale spunta la foresta delle alberature veliere, un
intreccio folto di sartie, di scale e di pennoni che spicca sull’azzurro
immacolato del cielo; il mare scherza in mille modi sugli scogli interno alla lanterna.
Allegri squilli di tromba vengono da due navi da guerra ancorate al Modo
Lucedio; dei canti lontani pare che si chiamino. I gabbiani si rincorrono a
fior d’acqua gridando, come per giuoco. Girando il Molo Giano per uscire dal
porto, Genova intera si apre allo sguardo, vigilata dai forti, incantevole. Vi
è per tutto una gioiosa aria di festa!
Poco a poco ogni cosa fugge all’orizzonte e si annebbia.
La faccia della Patria impallidisce lontano, ma lungamente ancora corrono su di
lei fervide le ultime carezze della sguardo nostro....»
Luigi Barzini, L’Argentina
vista come è. Milano, Tipografia del Corriere della sera, 1902.
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