«Di questa
America povera. Aveva detto proprio così: di questa America povera. Perché lui
separava sempre i concetti come fossero talee distinte, o come marze di specie
differenti… qui una di un olivo da spremitura e là una di olive verdi da
tavola, e guai se andavano a finire nell’innesto sbagliato: America ricca e
America povera, una sopra e l’altra sotto… Anche a quei tempi, sì, anche quando
quell’America laggiù, intorno e sotto il trópico del Capricorno, tanto povera
non era mica. Allora almeno, un centinaio d’anni fa, quando si mise in moto
tutto questo trambusto. Quando fatta l’Italia e gli italiani, i padri della
patria, una e tricolorata, si resero conto che i sudditi avevano fame, e
figliavano, e si riproducevano, e non si accontentavano di belle parole, ma
pane volevano, pane, proprio così.
E allora
cominciarono a guardarsi intorno: se questi avevano fame, bisognava mandarli
lontano. Di colonie ce n’erano ma non bastavano. Di bagni penali qualcosa c’era,
ma i malfattori anarchici li avevano già riempiti tutti. Rimaneva una
soluzione: esportare il problema che non si poteva risolvere. Ovverosia spostar
la magagna a qualcun altro. Montarli tutti su un barcone, direzione il sol dell’avvenire,
che notoriamente sorge a oriente ma poi ci passa sopra e se ne va verso
occidente. Allora rotta a ponente, e via, verso la terra promessa: in questo o
nell’altro hemisferio. C’era chi partiva per l’America ricca e andava a Chicago
o a Detroit, e c’erano quelli che andavano nell’America povera. Che, si intenda
bene e a tal fine giovi la ripetizione, tanto povera non era, perché non
avevano ancora finito d’affamarla. Quest’America aveva miniere a cielo aperto
di carne e di caffè, ricchezze che in Italia se le sognavano, i padri della
patria con la loro testa cinta dell’elmo di Scipio. Sicché quando toccò a lui,
al fioraio, prese la decisione di andarsene a Buenos Aires. Forse perché aveva
qualche contatto, o forse perché tra gli emigrati si diceva che la lingua era
più facile, così vicina all’italiano da non dover penare tanto come con l’inglese.»
Alberto
Prunetti, Il fioraio di Perón.
Introduzione di Massimo Carlotto. Viterbo: Stampa Alternativa, 2009.
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