martes, 31 de mayo de 2016

Emigrati. Studio e racconto, de Antonio Marazzi (1880-1881)



«L’atrio della Cancelleria e la Cancelleria stessa eran pieni di compatrioti, per la maggior parte gente venuta in Merica per far fortuna, ma che avea fatto invece della miseria. Chi veniva a vedere se i suoi parenti, rimasti in Italia, avean mandato il danaro occorrente onde potesse rimpatriare; chi volea sapere dove e come potrebbe trovare un impiego, anche mal retribuito, pur di campare la vita; chi, avendo sofferto gravi malattie, nell’impossibilità di dedicarsi a qualsiasi lavoro, veniva ad implorare un soccorso pecuniario. Alcuni invalidi e cronici si presentavano per ottenere l’imbarco sui vapori della Società Lavarello, a prezzo ridotto od a spese del Governo. Molti poi, la cui disgrazia consisteva in un accesso d’appetito, e che, non ostante la miglior volontà del mondo, non trovavano da occupare le proprie braccia, occorrevano per accertarsi se fosse vero che una nave della regia marina da guerra era venuta appositamente per ricondurre in Italia tutti gli italiani stufi di stare in America.»


Antonio Marazzi, Emigrati. Studio e racconto. Vol. III “Dall’America in Europa”. Milano: Fratelli Dumolard, 1881.


sábado, 28 de mayo de 2016

Encuentro "La literatura en la ópera italiana", a cargo de Nora Sforza



2° Encuentro del Ciclo
“La literatura en la ópera italiana”

a cargo de la Prof. Nora Sforza

Lunes 30 de mayo a las 18.30 hs.

Salón del Istituto Italiano di Cultura a Buenos Aires
(Marcelo T. de Alvear 1119, 3er piso).

Borges, un tejedor de sueños. Entrevista de Amelia Barili para La Prensa (1986)



«En un cuento mío, o una especie de cuento, hablo de eso [la comprensión de la verdad]- Yo estaba releyendo la Divina Comedia, y usted recordará que en el Primer Canto, Dante se encuentra con dos o tres animales, y uno de ellos es un leopardo. Luego el editor hace notar que llevaron a Florencia un leopardo en tal fecha, y que Dante habría visto ese leopardo, como todo ciudadano de Florencia, y por eso puso un leopardo en el Primer Canto del Infierno. Entonces, yo imagino que a ese leopardo un sueño le revela que él ha sido creado para que Dante lo vea y lo use en su poema. El leopardo en el sueño entiende eso, pero cuando despierta, naturalmente ¿cómo va a entender que él existe para que un hombre escriba un poema? Y luego yo digo que si a Dante le hubiera sido revelado por qué él ha escrito la Comedia, él podría entenderlo en un sueño, pero al despertar, no. Sería tan complicada la razón, como la otra para el leopardo.»


“Borges, un tejedor de sueños”, en el diario La Prensa, Buenos Aires, 3 de agosto de 1986. Entrevista de Amelia Barili.

Fotografía: Jorge Luis Borges en Villa Palagonia, Bagheria, 1984 - Ferdinando Scianna

viernes, 27 de mayo de 2016

Qué es un clásico, según Jorge Luis Borges e Italo Calvino



«Clásico es aquel libro que una nación o un grupo de naciones o el largo tiempo han decidido leer como si en sus páginas todo fuera deliberado, fatal, profundo como el cosmos y capaz de interpretaciones sin término. Previsiblemente, esas decisiones varían. Para los alemanes y austríacos el Fausto es una obra genial; para otros, una de las más famosas formas del tedio, como el segundo Paraíso de Milton o la obra de Rabelais. Libros como el de Job, la Divina Comedia, Macbeth (y, para mí, algunas de las sagas del norte) prometen una larga inmortalidad, pero nada sabemos del porvenir, salvo que diferirá del presente. Una preferencia bien puede ser una superstición.
[…]
La gloria de un poeta depende, en suma, de la excitación o de la apatía de las generaciones anónimos que la ponen a prueba, en la soledad de sus bibliotecas.
Las emociones que la literatura suscita son quizá eternas, pero los medios deben constantemente variar, siquiera de un modo levísimo, para no perder su virtud. Se gastan a medida que los reconoce el lector. De ahí el peligro de afirmar que existen obras clásicas y que lo serán para siempre.
[…]
Clásico no es un libro (lo repito) que necesariamente posee tales o cuales méritos; es un libro que las generaciones de los hombres, urgidas por diversas razones, leen con previo fervor y con una misteriosa lealtad.»

Jorge Luis Borges, “Sobre los clásicos” en Otras inquisiciones (1952).



«1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Lo sto rileggendo…” e mai “Lo sto leggendo…”
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.
4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire.
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).
8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.
11. Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.»

Italo Calvino, Perché leggere i classici (1991)



«Scoprire Borges è stata per noi veder realizzata una potenzialità vagheggiata da sempre: veder prendere forma un mondo a immagine e somiglianza degli spazi dell’intelletto, abitato da uno zodiaco di segni che rispondono a una geometria rigorosa.» (Italo Calvino)


«Labirinto culturale di Franco Maria Ricci» (Homenaje a Jorge Luis Borges).
Fontanellato, Parma.


jueves, 26 de mayo de 2016

Sull'Oceano, de Edmondo De Amicis (1889)



«C’eran bene di quei lavoratori avventizi del Vercellese, che con moglie e figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non riescono a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovan lavoro; di quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lora al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido. C’erano anche di quei contadini del Pavese che, per vestirsi e provvedersi strumenti da lavoro, ipotecano le proprie braccia, e non potendo lavorar tanto da pagare il debito, rinnovano la locazione in fin d’ogni anno a condizioni più dure, riducendosi a una schiavitù affamata e senza speranza, da cui non hanno altra uscita che la fuga o la morte. «C’erano molti di quei Calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impasto di segatura di legna e di mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale, o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame, e di quei bifolchi della Basilicata, che fanno cinque o sei miglia ogni giorno per recarsi sul luogo del lavoro, portando gli strumenti sul dorso, e dormono col maiale e con l’asino sulla nuda terra, in orribili stamberghe senza camino, rischiarate da pezzi di legno resinoso, non assaggiando un pezzo di carne in tutto l’anno, se non quando muore per accidente uno dei loro animali. E c’eran pure molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acqua-sale delle Puglie, che con una metà del loro pane e centocinquenta lire l’anno debbon mantenere la famiglia in città, lontana da loro, e nella campagna dove si stroncano, dormono sopra sacchi di paglia, entro a nicchie scavate nei muri d’una cameraccia, in cui stilla la pioggia e soffia il vento. C’era in fine un buon numero di quei vari milioni di piccoli proprietari di terre, ridotti da una gravezza di imposta unica al mondo in una condizione più infelice di quella dei proletari, abitanti in catapecchie da cui molti di questi rifuggirebbero, e tanto miseri, che “non potrebbero nemmeno vivere igienicamente, quando vi fossero obbligati per legge.” Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura.»

De Amicis, Edmondo. Sull’Oceano. Milano: Fratelli Treves, 1889.



Ilustración de Arnaldo Ferraguti para la edición de lujo de Sull’Oceano publicada en 1890 en Milán por la casa editorial Treves.

miércoles, 25 de mayo de 2016

"Itálica evocación de un estudiante de Bellas Artes", de Raúl Soldi en Revista Lyra (1973)


«Dejé Chiávari, la Riviera Italiana, y me trasladé a Milán para estudiar dibujo y pintura en la Academia de Brera. Un pintor de Chiávari, llamado Rambaldi, me había aconsejado esta Academia donde él había pasado seis años de tiranía. Era realmente una tiranía, con profesores exigentes al máximo.
Lo difícil era poder entrar, porque en Italia, la Academia es considerada estudio superior, y tenían grandes exigencias para el ingreso. Éramos solamente seis alumnos. Al principio estaba con un temor bárbaro ya que solamente había concurrido cuatro meses en Buenos Aires, a la Academia de Bellas Artes que entonces estaba en la calle Alsina. Allí había dibujado unos yesos y algunos que otro objeto decorativo.
Cuando me largué a Milán, con poco dinero, se me ocurrió buscar trabajo de publicidad. Ya anteriormente había hecho algo para algunas agencias de Buenos Aires. Dibujé también alhajas para la joyería Roig, que no sé si todavía existe.
Llego a Milán una noche con el “nebbione” (así llaman en Milán a esas noches de otoño adelantado), una neblina igual a la londinense. Milán está en el centro de la llanura lombarda, estero húmedo lleno de neblina. Mi encuentro con la ciudad no fue muy promisorio.
Tenía la dirección de una señora que alquilaba habitaciones amuebladas en Via Madonnina, cerca de la Academia de Brera. Me instalé allí. Recuerdo mi primera cena. Café con leche y un quesito triangular suizo. Almuerzo: milanesa que por lo transparentes parecían de vidrio. Cuando se tiene 20 años y ganas de aprender a pintar no se encuentran inconvenientes.
Di el examen de ingreso y, por suerte, pude entrar. Casualmente estaba en el aula de decoración que dirigía el pintor Palanti, hermano del arquitecto que hizo el pasaje Barolo, otro argentino nacido en Rosario, con el cual compartí una habitación en otra casa. Este argentino luchaba desesperadamente por aprender pintura. Pero creo que estaba equivocado. Realmente lo creía músico. Tocaba muy bien el violín. Cuando llegué a Buenos Aires, terminados mis estudios, tuve la amarga noticia de que se había ahorcado en la ciudad de Rosario.
Poco tiempo después conocí a Fontana. Estudiaba con Adolfo Wilt, en Brera. Formamos un pequeño clan de argentinos que después se diluyó. Seguí viendo a Fontana y me uní al grupo de los “Chiaristi”, formado por Del Bon, Sassu, Adriano Spilimbergo, Birolli y el escultor Giacomo Manzu.
Los “Claristas” éramos los pintores que sacrificábamos el volumen por el color, como rebelón a los del “novecento” que acentuaban los oscuros y el relieve.
Compartí con Manzú un taller en Corso Magenta, a pocas cuadras donde se encuentra el famoso Cenáculo de Leonardo. No dejaba de visitar, cuando iba a mi taller, una iglesia afrescada por Bernardino Luini, pintor que me fascinó desde la pinacoteca de Brera. Porque en Brera, en la planta baja está la Academia, y en el primer y segundo piso, la deslumbrante pinacoteca con los fresco de Luini, el Cristo en escorzo de mantegna, y el Casamiento de la Virgen, de Rafael, pintado a los 19 años. Era para mí irrefrenable el deseo, durante los descanso del modelo, de escaparme a la pinacoteca. Allí se fue formando mi amor por la gran pintura. Eran como de “entrecasa” Rafael, Filippo Lippi, Giorgione, Luini, y más reciente Ranzoni, Cremona Lega, Hayes…
Pero la juventud cree siempre haber inventado la pintura, y con el grupo de la Galería de Milione en la cual hice mi primera muestra con Fontana que justamente se abrió frente a Brera, hacíamos la rebelión contra la Academia. La historia se repite. Siempre existen jóvenes rebeldes, es tan viejo como el mundo. Con el tiempo nos damos cuenta de que la pintura hacía rato que había sido inventada y que el arte no progresa; solo evoluciona.
Tengo unas anécdotas más o menos graciosas. Contaré la de la caja de zapatos. Me llevaba a mi taller, para calefaccionarlo, una caja de zapatos llena de carbón de piedra que robaba en la Academia. Varias veces me vieron con la caja perfectamente envuelta, pero un buen día me detiene el celador y me pregunta qué llevaba allí. “Zapatos”, le dije, “me acabo de comprar zapatos”. Me hizo desenvolver el paquete que estaba lleno de carbón. Avergonzado, en adelante tuve que comprar el carbón si quería calentarme.
Cuando fui a ofrecerme a una agencia de publicidad, llevé unas muestras, con la esperanza de conseguir trabajo y poder pagarme los estudios. “Lei arriba come il formaggio sulla pasta asciuta” (usted llega como el queso sobre los tallarines)”. Acabo de pelearme con mi dibujante. Probaré con usted. Quedó conforme. Tuve tanta suerte, y tanto trabajo que tenía que distribuir la tarea con algunos compañeros. Y con esto pagué mis seis años de estudio. Luego comenzaron las exposiciones de mis cuadros, conseguí vender algunos. El panorama se me iba aclarando.
Por la noche nos reuníamos en el café Grand Italia, en la Galería Vittorio Emanuele, frente al teatro Alla Scala. Eran verdaderos cenáculos de pintores y escultores donde no se hablaba de otra cosa sino de Arte. Se criticaba, pero había un íntimo respeto por las obras de los mayores, cosa que ahora creo ya no existe en ninguna parte. Estos son recuerdos que se me sobreimprimen en la mente, y cada uno de ellos tiene un dejo de alegría o de amargura. Son los años donde cada cosa, aunque sea pequeña, tiene una importancia extraordinaria.
Nos fascinaban las muestras del grupo de De Chirico, Campigli, Morandi, Carra, Sironi. Leíamos ávidamente las críticas de arte que hacía Carrá en el Ambrosiano y Sironi en el “Popolo D’Italia”. Las críticas eran hechas generalmente por pintores que robaban horas a su trabajo, para informar sobre las muestras de la temporada. Los maestros eran para nosotros como seres extraordinarios, aunque nuestro punto de vista fuere distinto.
Repetí el primer año de dibujo. Fue muy doloroso. Un año de tiranía con un maestro inflexible; me hacía borrar interminablemente hasta conseguir la perfección en el dibujo. “Ricordati che questo ti farà bene (decía poniéndome la mano en el hombro). Confieso que lo odiaba. ¡Cuánto se lo agradecí con el correr del tiempo! Francamente dudé si debía repetir el año de dibujo. Nueve meses de tiranía para dibujar dos desnudos y dos yesos. Era realmente enloquecedor. Lo pensé bien. Hice de tripas corazón, crucé de nuevo el gran patio toscano con la estatua de Canovas al centro y me inscribí para el otro año. Rapetti falleció al poco tiempo; Carpi, mi segundo maestro que aún vive, era más tolerante. Nos parecía tocar el cielo con las manos. Nosotros poníamos en pose al modelo. Recuerdo que en una ocasión, como no le satisfizo lo que yo había hecho, me pidió la paleta para corregirme; al pobre le salió tal “bodrio” que se fue abochornado. A veces no conviene hacer muestras de sabiduría ante los alumnos.
El maestro Carpi siempre nos daba consejos. Uno de los que recuerdo era que la lucha no era en la Academia, sino que empezaría cuando saliéramos a competir con los colegas.
Mi primer talle independiente se encontraba en Via Solferino, 11. En la misa casa había tenido el estudio Tranquilo Cremona. Cinco pisos, una escalera de caracol y luego la bohardilla junto a las chimeneas.
Tengo un recuerdo triste de una romana compañera de la Academia. Un día de carnaval, con veinte centímetros de nieve, delante de la estatua de Leonardo, frente a La Scala, se desnudó y le dijo al bronce: “Leonardo, los pintores no pintan ahora mujeres hermosas porque no saben, no porque les falte modelo, mírame a mí”. Un “vigile” la cubrió con el capote y la llevó al manicomio. Se había vuelto loca. Recuerdo que la fui a visitar varias veces. Volvió una vez más a Brera y luego no supe más de ella. Había regresado a Bucarest.
Al terminar la Academia, como hijo de italiano tenía que hacer el servicio militar. El cónsul argentino me aconsejó ir a Lugano. Ya habíamos dejado el departamento, y los trámites de la Embajada argentina demorarían mucho tiempo. Se me ocurrió ir a Ponte Tresa, en la frontera suiza, y me puse a pintar un paisaje de Suiza visto desde Italia. Luego, en un descuido de los aduaneros, crucé el puente y pinté otro paisaje de Italia visto desde Suiza. En otro descuido, tomé el tranvía y me fui a Lugano. De allí a Ginebra y de Ginebra a Marsella donde me reuní con mis padres que se habían embarcado en Génova, en un barco francés.
A bordo se realizó una rifa a beneficio de los marineros. Regalé un dibujo que vio Jacqueline Ibels, nuestra recordada amiga que viajaba en el mismo barco. Quiso conocerme, y al llegar me presentó a Héctor Basaldúa, pintor que recuerdo siempre con gran cariño por ser el que organizó mi primera exposición en Amigos del Arte, la cual despertó gran hilaridad en algunos sectores del público.
Buenos Aires me atrapó con su encanto, y aquí, estoy luchando con alegría.»


Patio toscano de la Academia de Brera, en el centro, la estatua de Canova.


Aula de dibujo de la Academia de Brera; de pie, a la derecha, Raúl Soldi con algunos compañeros y el modelo vestido de romano.


Brera también, en el centro, el celador que descubrió la caja de zapatos conteniendo carbón.


Frente de Via Solferino II, en Milán, donde tuve mi primer taller. En la placa se lee: "Aquí vivió Tranquilo Cremona, il grande pittore."


En Revista Lyra. Número homenaje a Italia. Año XXXI, N° 225/27, Año 1973.
Imágenes de la Revista Lyra.

Storie dell'emigrazione, dirigida por Alessandro Blasetti (1972)




Fragmento del documental de Alessandro Blasetti emitido en RAI (1972). 

Con la participación de Otello Profazio, Matteo Salvatore, Adriana Doriani, Caterina Bueno, Graziella Di Prospero, Duo di Piadena.

domingo, 22 de mayo de 2016

Mesa redonda sobre la ópera "I Capuleti e i Montecchi" de Vincenzo Bellini, Universidad del Salvador, 23 de mayo de 2016



Mesa redonda sobre la ópera “I Capuleti e i Montecchi” de Bellini  USAL Universidad del Salvador



Lunes 23 de mayo a las 17 en el Auditorio de la Universidad del Salvador (USAL), Lavalle 1854 (C1051AAB), Ciudad de Buenos Aires. Entrada libre y gratuita. Capacidad limitada.

En la búsqueda de un acercamiento al ARTE DE LA ÓPERA a todo el público interesado en experiencias culturales, Buenos Aires Lírica los invita al segundo encuentro del año del ciclo de mesas redondas dedicadas a las producciones de su temporada lírica.
En esta oportunidad se abordará I Capuleti e i Montecchi, de Vincenzo Bellini. Las funciones tendrán lugar en el Teatro Avenida el 3, 5, 9 y 11 de junio.


ANTECEDENTES

La ópera es una manifestación artística nacida de la especulación de un grupo de intelectuales renacentistas italianos, que se impuso popularmente a mediados del siglo XVII y que creció hasta abarcar todas las artes. Hoy se puede asegurar que se trata del primer entretenimiento multimediático de la historia.
Las mejores óperas tienen un enorme trasfondo cultural dada la diversidad de fuentes, que la alimentan y es por eso que pueden ser comprendidas desde una variedad de disciplinas: no solamente desde la música y el teatro, sino -por ejemplo- también desde las costumbres, la historia, la filosofía, la psicología, las letras y las artes plásticas.


EL AUTOR Y SU OBRA

I Capuleti e i Montecchi es una de las óperas más famosas de Vincenzo Bellini (1801-1835), exponente del bel canto italiano, un estilo que se fundamenta en la belleza melódica y el virtuosismo vocal.
La historia de Romeo y Julieta en la visión de Bellini - autor, también, de las muy célebres I puritani y Norma- no se basa sin embargo en el célebre drama de Shakespeare sino en las fuentes italianas originales de la leyenda. El resultado es una obra que narra la historia de amor sobre el trasfondo de las luchas entre dos familias, güelfos unos, gibelinos los otros.


LA MESA

La mesa del lunes 23 de mayo se integra con: Jorge Parodi, director musical; Marcelo Perusso, director escénico; la Dra. Nora Sforza, profesora de historia y literatura; y el Dr. Aníbal Cetrángolo, doctor en musicología, músico y escritor.
Actuará de moderador el Ing. Frank Marmorek, presidente de la asociación Buenos Aires Lírica.

Buenos Aires Lírica es una asociación sin fines de lucro que desde 2003 contribuye a nuestra cultura, produciendo ópera clásica de nivel internacional y presentándola como una experiencia viva: en BAL la ópera se mira, se escucha, se descubre y se disfruta. Las actividades de difusión que propone se dirigen a todas las personas que quieran interesarse por la ópera a través de un conocimiento multidisciplinario.
La duración de la Mesa Redonda dedicada a I Capuleti e i Montecchi, de Bellini, será de 90 minutos aproximadamente y estará dirigida al público general interesado en las artes, la historia y las costumbres. Se responderán preguntas del público.
Entrada libre y gratuita. Capacidad limitada.


Informes +5411 4812 6369 MECENAZGO CULTURAL

sábado, 21 de mayo de 2016

"De los Apeninos á los Andes. (Cuento mensual)" en Corazón. (Diario de un niño), de Edmundo De Amicis (1886). Traducción de H. Giner de los Ríos



«Hace muchos años, cierto muchacho genovés de trece años, hijo de un obrero, fue de Génova á América solo para buscar á su madre.
Su madre había ido dos años antes á Buenos Aires, capital de la República Argentina, para ponerse al servicio de alguna casa rica y ganar así, en poco tiempo, algo con que levantar á la familia, la cual, por efecto de varias desgracias, había caído en la pobreza y tenía muchas deudas. No son pocas las mujeres animosas que hacen tan largo viaje con aquel objeto, gracias á los buenos salarios que allí encuentra la gente que se dedica á servir, y las cuales vuelven á su patria, al cabo de algunos años, con algunos miles de pesetas. La pobre madre había llorado lágrimas de sangre al separarse de sus hijos, uno de diez y ocho años y otro de once; pero marchó muy animada y con el corazón lleno de esperanzas. El viaje fue feliz; apenas llegó á Buenos Aires, encontró en seguida, por medio de un comerciante genovés, primo de su marido, establecido allí desde hacía mucho tiempo, una excelente familia del país, que le daba buen salario y la trataba bien. Por algún tiempo mantuvo con los suyos una correspondencia regular. Como habían convenido entre sí, el marido dirigía las cartas al primo, que se las entregaba á la mujer, y ésta le daba las contestaciones para que las mandase á Génova, escribiendo él por su parte algunos renglones. Ganando ochenta pesetas al mes y no gastando nada en ella, mandaba á su casa cada tres meses una buena suma, con la cual el marido, que era muy hombre de bien, oba pagando poco á poco las deudas más urgentes y adquiriendo así buena reputación. Entretanto trabajaba y estaba contento de lo que hacía y lisonjeado con la esperanza de que la mujer volvería dentro de poco, porque la casa parecía que estaba sin sombra con su falta, y el hijo menor principalmente, que quería mucho á su madre, se entristecía y no podía resignarse á su ausencia.

Pero transcurrido un año desde la marcha, después de una carta breve en la que decía no estaba bien de salud, no se recibieron más. Escribieron dos veces al primo y éste no contestó. Escribieron á la familia del país donde estaba sirviendo la mujer, pero sospecharon que no llegaría la carta, porque habían equivocado el nombre en el sobre, y, en efecto, no tuvieron contestación. Temiendo una desgracia, escribieron al Consulado italiano de Buenos Aires para que hiciese investigaciones; y después de tres meses, les contestó el cónsul que, á pesar del anuncio publicado en los periódicos, nadie se había presentado, ni para dar noticias. Y no podía suceder de otro modo, entre otras razones, por ésta: que con la idea de salvar el decoro de su familia, que creía mancharle haciéndose criada, la buena mujer no había dicho á la familia argentina su verdadero nombre. Pasaron otros meses sin que tampoco hubiera ninguna noticia. Padre é hijos estaban consternados; al más pequeño le oprimía una tristeza que no podía vencer. ¿Qué hacer? ¿A quién recurrir? La primera ideal del padre fue marcharse á buscar á su mujer á América. Pero ¿y el trabajo? ¿Quién sostendría á sus hijos? Tampoco podía marchar el hijo mayor, porque comenzaba entonces á ganar algo y era necesario para la familia. En este afán vivían, repitiendo todos los días las mismas conversaciones dolorosas ó mirándose unos á otros en silencio. Una noche, Marcos, el más pequeño, dijo resueltamente: “Voy á América á buscar á mi madre.” El padre movió la cabeza tristemente, y no respondió. Era un buen pensamiento, pero impracticable. ¡A los trece años, solo, hacer un viaje á América, necesitándose un mes para llegar! Pero el muchacho insistió pacientemente. Insistió aquel día, el siguiente, todos los días, con gran parsimonia, y razonando como un hombre. “Otros han ido –decía– más pequeños que yo. Una vez que esté en el barco llegare allí, como los demás. Llegado allí, no tengo que hacer más que buscar la casa del tío. Como hay allá tantos italianos, alguno me enseñará la calle. Encontrando al tío, encuentro á mi madre, y si no la encuentro, buscaré al cónsul y á la familia argentina. Haya ocurrido lo que quiera, hay allí trabajo para todos; yo también encontraré ocupación, al menos lo bastante para ganar con qué volver á casa.” Y así, poco á poco, casi llegó á convencer á su padre. Éste lo apreciaba, sabía que tenía juicio y ánimos, que estaba acostumbrado á las privaciones y los sacrificios, y que todas estas buenas cualidades daban doble fuerza á su decisión en aquel santo objeto de buscar á su madre, que adoraba. Sucedió también que cierto comandante de buque mercante, amigo de un conocido suyo, habiendo oído hablar del asunto, se empeñó en ofrecerle, gratis, billete de tercera clase para la República Argentina. Entonces, después de nuevas cavilaciones, el padre consintió y se decidió el viaje. Llenaron un baulillo de ropa, le pusieron algunas pesetas en el bolsillo, le dieron las señas del tío, y una hermosa tarde del mes de abril lo embarcaron. “Marco, hijo mío –le dijo el padre, dándole el último beso con las lágrimas en los ojos, sobre la escalerilla del buque que estaba para salir–: ¡ten ánimo, vas con un fin santo, Dios te ayudará!”»


De Amicis, Edmundo, “De los Apeninos á los Andes. (Cuento mensual)” en Corazón. (Diario de un niño). Traducido al español de la 44ª edición italiana por H. Giner de los Ríos. Versión revisada por el autor, y exclusivamente autorizada para España y América. Buenos Aires: Cabaut y Cía, Editores, Librería del Colegio, 1923.


Imágenes de la edición citada.

jueves, 19 de mayo de 2016

“Dagli Apennini alle Ande (Racconto mensile)” en Cuore, de Edmondo De Amicis (1886)


«Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America, – solo, – per cercare sua madre.
Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi a servizio di qualche casa ricca, e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio con quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre aveva pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l’uno di diciott’anni e l’altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il viaggio era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito, per mezzo d’un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là da molto tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene. E per un po’ di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare. Com’era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva a Genova, aggiungendovi qualche riga di suo. Guadagnando ottanta lire al mese e non spendendo nulla per sé, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma, con la quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti più urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava ed era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe ritornata fra non molto tempo, perché la casa pareva vuota senza di lei, e il figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si rattristava, non si poteva rassegnare alla sua lontananza.

Ma trascorso un anno dalla partenza, dopo una lettera breve nella quale essa diceva di star poco bene di salute, non ne ricevettero più. Scrissero due volte al cugino; il cugino non rispose. Scrissero alla famiglia argentina, dove la donna era a servire; ma non essendo forse arrivata la lettera perché avean storpiato il nome sull’indirizzo, non ebbero risposta. Temendo d’una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l’avviso fatto pubblicare dai giornali, nessuno s’era presentato, neppure a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa: che con l’idea di salvare il decoro dei suoi, ché le pareva di macchiarlo a far la serva, la buona donna non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero nome. Altri mesi passarono, nessuna notizia. Padre e figliuolo erano costernati; il più piccolo, oppresso da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A chi ricorrere? La prima idea del padre era stata di partire, d’andar a cercare sua moglie in America. Ma e il lavoro? chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E neppure avrebbe potuto partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto allora a guadagnar qualche cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo affanno vivevano, ripetendo ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o guardandosi l’un l’altro, in silenzio. Quando una sera Marco, il più piccolo, uscì a dire risolutamente: – Ci vado io in America a cercar mia madre. – Il padre crollò il capo, con tristezza, e non rispose. Era un pensiero affettuoso, ma una cosa impossibile. A tredici anni, solo, fare un viaggio in America, che ci voleva un mese per andarci! Ma il ragazzo insistette, pazientemente. Insistette quel giorno, il giorno dopo, tutti i giorni con una grande pacatezza, ragionando col buon senso d’un uomo. – Altri ci sono andati, – diceva, – e più piccoli di me. Una volta che son sul bastimento, arrivo là come un altro. Arrivato là, non ho che a cercare la bottega del cugino. Ci sono tanti italiani, qualcheduno m’insegnerà la strada. Trovato il cugino, e trovata mia madre, se non trovo lui vado dal Console, cercherò la famiglia argentina. Qualunque cosa accada, laggiù c’è del lavoro per tutti; troverò del lavoro anch’io, almeno per guadagnar tanto da ritornare a casa. – E così, a poco a poco, riuscì quasi a persuadere suo padre. Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e coraggio, che era assuefatto alle privazioni e ai sacrifici, e che tutte queste buone qualità avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di trovar sua madre, ch’egli adorava. Si aggiunse pure che un Comandante di piroscafo, amico d’un suo conoscente, avendo inteso parlar della cosa, s’impegnò di fargli aver gratis un biglietto di terza classe per l’Argentina. E allora, dopo un altro po’ di esitazione, il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli empirono una sacca di panni, gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero l’indirizzo del cugino, e una bella sera del mese d'aprile lo imbarcarono. – Figliuolo, Marco mio, – gli disse il padre dandogli l’ultimo bacio, con le lacrime agli occhi, sopra la scala del piroscafo che stava per partire: – Fatti coraggio. Parti per un santo fine e Dio t’aiuterà.»

 

De Amicis, Edmondo, “Dagli Apennini alle Ande (Racconto mensile)” en Cuore. Milano: Treves, 1886.


Imágenes: Cuore. Libro per i ragazzi con illustrazioni di A. Ferraguti, E. Nardi e A. G. Sartorio. Milano: Fratelli Treves, 1892.

miércoles, 18 de mayo de 2016

Sull'Oceano, de Edmondo De Amicis (1889)



«Erano i cinque argentini, in compagnia del prete napoletano, che venivano per la prima volta a prua a dare un’occhiata ai loro ospiti. Il prete doveva spiegare al deputato un qualche suo progetto d’impresa finanziaria, perché gli dicea forte, agitando la mano come un ventaglio:  ...si se encontràran los accionistas para un gran banco agricola-colonizador... – Ed io mi unii a loro, spinto da una più viva simpatia, in quegli ultimi giorni, per i figli di quel paese a cui tanti miei concittadini stavano per affidare le sorti della propria vita. E cercavano sul loro viso le impressioni dell’animo. Ma essi guardavano e non dicevano nulla. Gli occhi loro, per altro, e ogni minimo atto rivelavan la soddisfazione d’orgoglio ch’ei risentivano al veder tutta quella gente, la quale andava a chieder sostentamento alla loro patria, la maggior parte per sempre, e i cui figliuoli a venire, nati cittadini della repubblica, avrebbero parlato la loro lingua e non più imparato la propria, e mostrato forse vergogna, come troppo spesso accade, della loro origine straniera. Essi forse, guardandoli, si rappresentavano con l’immaginazione tutti quei mangiatori di terra e trafficanti liguri all’opera, e vedevan guizzare le barche cariche sulle acque del Paranà e dell’Uruguay, allungarsi a traverso alle foreste le nuove strade ferrate degli stati tropicali, alzarsi i canneti di zucchero nei campi di Tucuman, e i vigneti sui colli di Mendoza, e le piantagioni di tabacco nel Gran Chaco, e le case e i palazzi sorgere a mille a mille, e miriametri quadrati di deserto verdeggiare e indorarsi sotto la pioggia dei loro sudori. Un’onda di cose mi venne allora alla bocca, da dir loro. Voi accoglierete bene questa gente, non è vero? Sono volontari valorosi che vanno a ingrossare l’esercito col quale voi conquistate un mondo. Son buoni, credetelo; sono operosi, lo vedrete, e sobrii, e pazienti, che non emigrano per arricchire, ma per trovare da mangiare ai loro figliuoli, e che s’affezioneranno facilmente alla terra che darà loro da vivere. Sono poveri, ma non per non aver lavorato; sono incolti, ma non per colpa loro, e orgogliosi quando si tocca il loro paese, ma perché hanno la coscienza confusa d’una grandezza e d’una gloria antica; e qualche volta sono violenti; ma voi pure, nipoti dei conquistatori del Messico e del Perú, siete violenti. E lasciate che amino ancora e vantino da lontano la loro patria, perché se fossero capaci di rinnegar la propria, non sarebbero capaci d’amar la vostra. Proteggeteli dai trafficanti disonesti, rendete loro giustizia quando la chiedono, e non fare sentir loro, povera gente, che sono intrusi e tollerati in mezzo a voi. Trattateli con bontà e con amorevolezza. Ve ne saremo tanti grati! Sono nostro sangue, li amiamo, siete una razza generosa, ve li raccomandiamo con tutta l’anima nostra!»


De Amicis, Edmondo, Sull’Oceano. Milano: Fratelli Treves, 1889.

Ilustraciones de Arnaldo Ferraguti para la edición de 1890.

lunes, 16 de mayo de 2016

Música criolla, de Carlos M. Pacheco y Pedro E. Pico (1906)



«Don Costa. – ¿Y qué anda haciendo por acá?
Ernesto. – Buscando a unos musicantes…. Usted los ha de conocer.
Don Costa. – Ya lo creo. El patrón es el gringo Patrefusque.
(Llamando.) ¡Don Nicola!
Dichos y Patrefusque.
Patrefusque. – (Desde los altos.) ¿Qui fu?
Don Costa. – Baje maestro, que lo buscan.
Patrefusque. – (Bajando.) Come no… Enseguidita.
Ernesto. – ¿Es ese?
Don Costa. – El mismo. ¿Se da cuenta?
Patrefusque. – (Sumamente grave y ceremonioso.) Nicola Patrefusque, taliano sa sacato la carta, maguestro compositore de chierte tanguite cumpedrite come per equemple. (Saca un papel del bolsillo y lee.) Curpia que t'estamo acerrando. Tun Panchite. La muruchita. Acarrame Catoline. Salú Vetorio. No me parece rubite. Avení ca ta prechiso. Spianta ca te case il loro e finalmente mio capo labore, ca tanto sa puete intitulare “Lo tangue de Patrefusque” cume “¿Qui fu ca tirato la pietra?”
Ernesto. – Bueno, amigo, paresé.... ¿De modo que cuenta con un gran repertorio?
Don Costa. – ¿Se da cuenta?
Patrefusque. – Sume in cuatro e lo cuatri siamo argentine cume ta rique per mutive de la carta ca eme sacato.
Ernesto. – ¿Y para qué han sacado la carta?
Patrefusque. – Tanto per potere hacer lu nigucito cu la libreta.
Ernesto. – Está bueno.
Don Costa.- Aquí vive el intendente del comité de la esquina. El Mosquito. Él los ha hecho nacionalizar, ¿se da cuenta?
Ernesto. – Bueno. Se trata de que vayan esta noche a Palermo. Hemos organizado un bailongo en el Bristol.
Patrefusque. – Prefetamente…. Ma deca la direcione.»

Carlos M. Pacheco y Pedro E. Pico, Música criolla. Sainete cómico-lírico-dramático en un acto, dividido en tres cuadros. Música de Francisco Payá (1906).

Enciclopedia secreta de una familia argentina, de Marco Denevi (1986)








Italianos: Para Patrocinio de José, para Santiago de la Traslación y aun para Cuatrosantos, todo sujeto venido de Italia debía ser como los Casamiciolla o como los Mussomelli. No había otros. Los Casamicciola, provenientes de Nápoles, eran gordos, con el pelo negro y crespo, la gesticulación vehemente y un idioma estentóreo. Los hombres tenían vocación por el barrido municipal de las calles, por los carros de verduras y por los coches de plaza llamados mateos. Viejos y jóvenes, todos eran confianzudos, melosos, libidinosos. Las mujeres, siempre en la preñez, alborotadas y sudadas, sufrían la obsesión de lavar la ropa y de orearla en los patios. Los Mussomelli, oriundos de Sicilia, se habían juramentado para la flacura, para la ropa negra y para los secretos de una mafia taciturna, disimulada de albañilería. Sus mujeres, vestidas de luto sempiterno, cuchicheaban entre ellas como para ocultar que en la habitación tenían a un muerto, víctima de alguna venganza. El idioma era un rezo malhumorado, una rencorosa trituración de íes y de úes, pero a veces, en apariencia sin ningún motivo, hombres y mujeres se ponían a chillar. ¿Qué pasaba? ¿Habían recibido la noticia de una nueva vendetta? Misterio. Los Casamiciolla y los Mussomelli compartían la pobreza, la proliferación de hijos, las riñas recíprocas, el olor a ajo y a pimiento morrón.”






Marco Denevi y otros, Enciclopedia secreta de una familia argentina. Buenos Aires: Sudamericana, 1986.


domingo, 1 de mayo de 2016

¿Por qué me siento europeo?, de Jorge Luis Borges (1985)



“Y luego, cuando yo hablo de Europa, no me refiero a una simple entidad geográfica; hablo de algo que para mí está vivo. Quiero decir con ello que tengo sangre española, sangre británica, sangre portuguesa, sangre judía y, de forma mucho más alejada –ello me remonta al siglo XIV–, sangre francés, normanda para ser más preciso. Por muy raros que sean mis ascendientes franceses y por muy alejados que estén, yo tengo el orgullo de haber compuesto, por ejemplo, la Chanson de Roland, y creo que todo europeo debería enorgullecerse de haber compuesto la obra de Hölderlin, la de Racine, la de Shakespeare y, sobre todo, esa obra maestra de la literatura occidental que es –al lado de la Biblia, que es una obra oriental– la Divina Comedia, de Dante. En otros términos, Europa es para mí algo vivo…”

Jorge Luis Borges, “¿Por qué me siento europeo” en El País, Madrid, jueves 17 de octubre de 1985.
Fotografía de Jorge Luis Borges en la Biblioteca Nacional (1962), de Ronald Shakespear.


Imagen: John Speed Europ, and the Cheife Cities Contaned therein Described London 1626. 

Italia, 1750.